Cosi' (non) e' cambiato il capitalismo italiano
Il ranking annuale curato dall'Ufficio studi di Mediobanca (www.mbres.it) che riporta l'elenco delle principali società italiane, ordinate per fatturato, scatta una fotografia molto netta dello stato attuale del capitalismo italiano. Per uno storico d'impresa è difficile resistere al fascino del confronto con lo stesso dato di venti anni fa. Il 1992 fu un anno concitato: la firma del trattato di Maastricht, l'avvio degli sconvolgimenti politici a seguito di Tangentopoli, l'uscita della lira dallo Sme e la sua svalutazione e l'avvio di un ampio processo di privatizzazioni, almeno nelle intenzioni destinato a mutare l'intelaiatura del capitalismo italiano.
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Andrea Colli |
A quella data, l'elenco delle principali società rifletteva tutta la storia industriale del paese. Se si considerano i vertici della classifica, emergono almeno due caratteristiche. In primo luogo, la natura della proprietà. Dei primi 50 gruppi industriali, ben 19 erano sotto il controllo pubblico: Ilva, Fincantieri, Ansaldo, Alenia-Aeritalia nella metalmeccanica, Sip e Italtel (comunicazioni), e poi ancora Autostrade, ma anche Generale Supermercati , oltre che naturalmente il gruppo Eni, con le sue diramazioni nell'energia e nella petrolchimica. Era la storia della grande impresa pubblica italiana, quella che aveva contribuito alla infrastrutturazione e modernizzazione del paese e ora si andava disgregando sotto il peso di obbiettivi alternativi a quelli di efficienza ed economicità. Altre 12 grandi imprese, ma in posizioni di rincalzo, rappresentavano il mondo privato del capitalismo italiano: quello delle origini (il gruppo Fiat, ancora la prima società italiana), La Rinascente e Olivetti, ma anche quello più recente (Benetton, Luxottica, Ferrero, Esselunga e la galassia Publitalia). Il rimanente, altre 19 grandi imprese, erano filiali di imprese multinazionali o esito di acquisizioni estere in settori un tempo sotto il controllo domestico, come Zanussi e Galbani. La seconda caratteristica riguarda la struttura degli assetti proprietari: non diversamente da quelle pubbliche, tra le imprese private (comprese quelle sotto il controllo estero) prevaleva un'elevata concentrazione del controllo, direttamente, o indirettamente, nelle mani di individui, famiglie, oppure altre imprese.La (forse) principale aspirazione all'aprirsi di questi vent'anni era che trasformazioni istituzionali e di contesto potessero portare a una trasformazione strutturale del capitalismo italiano, che avrebbe dovuto coincidere con un percorso di modernizzazione. Ebbene, se si guardano i dati 2012, la situazione è cambiata poco. Le imprese pubbliche (controllo statale o di enti locali), sono 11, soprattutto presenti in ambito energetico. Lo stato si è parzialmente ritirato dai settori maturi della seconda rivoluzione industriale, come l'acciaio, ma è rimasto strategicamente presente nell'aerospaziale (Finmeccanica) e nell'energia (Eni). I gruppi privati hanno mantenuto la loro tradizionale divisione tra pochi pionieri, come Fiat (Exor), Italmobiliare (Pesenti) e una Pirelli profondamente mutata, mentre risalgono prepotentemente la classifica quelli che sono oggi i nuovi grandi gruppi privati (Riva, Esselunga, Benetton, Luxottica, Marcegaglia, De Agostini e altri). Clamorosa ancora la presenza estera, in tutti i settori chiave, dall'energia alle telecomunicazione, con una crescente intensità di acquisizioni di ex-campioni nazionali. E gli assetti proprietari? A parte la parziale privatizzazione di alcune ex-controllate pubbliche (es. Eni ed Enel), in cui però lo stato mantiene la maggioranza azionaria, nessuna deviazione dall'elevata concentrazione del controllo del 1992. Il controllo esercitato da pochi, grandi azionisti legati sovente da patti parasociali resta la regola. Dopo vent'anni di grandi rivolgimenti, sembra che ben poco sia cambiato, almeno sotto il profilo strutturale della proprietà e del controllo del grande capitalismo italiano. E il sogno della democrazia azionaria? Come diceva Tancredi al principe di Salina, suo zio, nel Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga come è bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?"