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Cosi' governo (e studio) la crisi economica

, di Lorenzo Martini
A Washington, alla Federal reserve, dove politica e ricerca vanno a braccetto, Chiara Scotti, alumna Bocconi, dirige l'organismo che supporta il board sui temi di stabilita' finanziaria

Nell'elenco di nomi che compongono la nutrita colonia di economisti italiani a Washington quello di Chiara Scotti è spesso citato tra i primi e i più influenti. «Non mi sento davvero così», si schermisce subito la ricercatrice italiana, ma il suo ruolo, delicato e strategico, a capo della sezione Financial Stability Assessment della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, parla per lei. «Quella che dirigo è una delle quattro sezioni dell'Office of Financial Stability Policy and Research, un'organismo creato nel 2013 per supportare il board nelle decisioni su temi di stabilità finanziaria», spiega la Scotti, approdata all'istituzione americana dopo una laurea in economia politica Bocconi nel 1998 (relatore Carlo Favero, oggi direttore del dipartimento di Finanza dell'ateneo) e un dottorato all'Università della Pennsylvania. «Con il mio team studiamo quali shock possano scuotere i mercati e le istituzioni e come possano minacciare la liquidità e altri servizi finanziari». Un'attività di analisi di fondamentale supporto per chi ha il compito di decidere la politica monetaria degli Usa con un'eco che si riverbera su tutta l'economia mondiale.
Come si lavora in un contesto nel quale sono ben presenti a tutti le conseguenze macroscopiche del proprio agire?
L'ambiente alla Fed è molto stimolante e tutti cercano di fare il proprio lavoro al meglio tenendo in considerazione ogni fattore in gioco, in uno spirito davvero collegiale. Tutto il sistema è organizzato orizzontalmente: anche gli economisti arrivati da qualche mese sono chiamati a tenere i briefing di fronte ai governors o al chair. Essere parte di un team di altissimo livello è la condizione necessaria per prendere decisioni importanti, in un ambiente concentrato ma sereno, con relazioni interpersonali rilassate.
Prima che un luogo di decisioni, in effetti, la Fed è un centro di ricerca specializzato che compete con le migliori università, attirando talenti da tutto il mondo.
La Fed è un luogo ideale per fare ricerca in virtù di molti fattori: la disponibilità di grandi data sets, l'accesso a fondi per partecipare e organizzare convegni, il supporto dei research assistants, i laureati che lavorano qui per un paio di anni prima di iscriversi a una graduate school. Quello che rende speciale però la Fed è la solida base di economisti ben preparati, che fanno ricerca, pubblicano sui migliori giornali, si impegnano nei lavori di policy a supporto delle decisioni di politica monetaria. La convivenza a stretto contatto di politica e ricerca, secondo me, è un fattore estremamente produttivo. La politica detta i temi di ricerca sitmolando l'analisi di argomenti originali e sempre all'avanguardia. La ricerca aiuta a determinare strategie e elaborare interventi innovativi: i quantitative easings o le macroprudential policies, per esempio, solo per guardare ai più recenti.
Come convivono, intorno al mitologico tavolo di mogano e granito da 8 metri della sala riunioni, gli analisti e i ricercatori con gli attori della politica economica?
Tutti contribuiscono all'obiettivo finale, che è quello di prendere decisioni di politica monetaria e finanziaria ottimali, portando ciascuno le proprie competenze e abilità tecniche. Quello che conta è la qualità delle idee e il rigore dei metodi. Il punto di forza della Fed è saper combinare in modo complementare oltre 300 economisti, uno dei dipartimenti di economia più grandi del mondo.
Che tipo di selezione ha dovuto superare per entrare a far parte di questo team?
Ho dovuto semplicemente dimostrare di essere preparata perchè qui davvero non importa chi sei, se sei donna o meno, italiana o meno, ma quello che studi, quello che fai e le tue potenzialità. Durante l'ultimo anno di PhD, come tutti i candidati, ho preparato un packet, con il mio cv, lettere di raccomandazione dei PhD advisor, lavori svolti e il job market paper ovvero un lavoro di ricerca che è parte della tesi di dottorato. A gennaio di ogni anno, durante i meetings, università e istituzioni visionano questi dossier e invitano gli studenti a un primo colloquio, superato il quale i candidati vengono chiamati per un fly-out presso l'università o l'istituzione interessata, nel quale presentano se stessi e il proprio obiettivo di ricerca.
Tra i paper di cui lei è autrice ce ne sono alcuni dedicati proprio a illustrare analogie e differenze tra la Bce e la Fed nell'affrontare l'attuale crisi economica. Può sintetizzarci le principali conclusioni a cui l'hanno condotta i suoi studi?
Negli ultimi anni mi sono occupata in dettaglio delle unconventional monetary policies che sono state adottate da tutte le principali banche centrali, incluse la Fed e la Bce, durante il periodo in cui i tassi hanno raggiunto la zero lower bound, ovvero la soglia limite dello zero dei tassi nominali. Il modo in cui le due banche centrali operano è differente e anche le politiche sviluppate per dare un adeguamento monetario sono state, almeno in parte, diverse. Negli Stati Uniti, la Fed ha implementato a partire dal 2008 politiche di forward guidance e large-scale asset purchases (LSAPs). In Europa, con un sistema finanziario incentrato sulle banche e la crisi del debito pubblico, la Bce si è dovuta concentrare prima sulle politiche per incrementare la liquidità delle banche e poi sull'acquisto del debito pubblico. Nei miei papers, in collaborazione con John Rogers (economista alla Fed, ndr) e Jonathan Wright (professore al dipartimento di Economia della John Hopkins, ndr), ho studiato gli effetti di queste strategie sui mercati finanziari locali e esteri. Le politiche espansive si dimostrano efficaci nel migliorare le condizioni finanziarie, non solo diminuendo i tassi del debito pubblico con il deprezzamento del tasso di cambio e la riduzione del term premium.