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Con formaggio e prosciutto, all'estero si deve andare in buona compagnia

, di Roberto Ravazzoni
L'etichetta Made in Italy non basta più: l'offerta è diventata troppo frammentata in distretti e territori

La valorizzazione in chiave di marketing dei prodotti agro-alimentari italiani ad alto contenuto di tipicità non costituisce un esercizio semplice, soprattutto se lo si vuole applicare al di fuori dei confini territoriali di origine.

Alla luce delle dinamiche della competizione internazionale, il concetto di Made in Italy in sé e per sé non basta più (in realtà, non è mai stato sufficiente) per competere efficacemente sui mercati esteri del largo consumo. Servono prima di tutto robusti progetti di marca.

In effetti, da qualche anno si fa un gran parlare di Made in Italy, inteso sia come concetto per promuovere la nostra offerta più qualificata e, più in generale, il nostro sistema valoriale (italian life style), sia come strumento di contrasto dei sempre più agguerriti concorrenti internazionali, sotto la duplice forma degli imitatori e, quella ben più dannosa, dei contraffattori.

Purtroppo, per "proteggere" i nostri prodotti e il nostro sistema di offerta non basta, come proposto da alcuni, apporre un'etichetta "Made in Italy" a fianco, magari, di una bandiera tricolore. In realtà, ciò da cui non si può prescindere è la presenza di una marca forte. E che sia aziendale o collettiva poco importa.

Il problema è che di marche nazionali forti ne possediamo davvero poche, nel contesto di una competizione internazionale sempre più intensa e allargata. Se si considera che anche il nostro migliore sistema di offerta è ancora caratterizzato da un elevato grado di frammentazione (dentro gli ormai angusti confini distrettuali e i territori dei prodotti tipici), si capisce molto bene come l'Italia su questi temi abbia bisogno di due elementi chiave per competere a livello internazionale: lo sviluppo di alcuni progetti mirati di marketing e marca collettiva, in abbinamento a un robusto intervento di rivitalizzazione sull'istituto centrale di promozione e valorizzazione dei nostri prodotti sui mercati esteri. Purtroppo, su entrambi i fronti scontiamo carenze e ritardi impressionanti nell'era della competizione allargata e time-based.

Peccato, perché si sta perdendo l'opportunità di cavalcare l'onda del crescente successo internazionale ottenuto dall'alimentazione italian style. Il nostro modello enogastronomico sta gradualmente conquistando il mondo intero e non solo con pizza e spaghetti.

La principale evidenza di questa accresciuta popolarità è che per conquistare oggi i mercati internazionali occorre esportare un modello di alimentazione a 360 gradi, in cui il singolo prodotto tipico è solo un input, in un più ampio e articolato processo di consumo.

Per ottenere questo risultato è necessario passare, una volta per tutte, da una logica parcellizzata sui singoli prodotti a un approccio di sistema, utilizzando i prodotti-core e i gruppi industriali più dinamici come apripista. In sostanza, l'orizzonte delle collaborazioni dovrebbe estendersi anche a produttori di filiere diverse, ma affini o complementari, fino a comprendere tutti i soggetti che hanno a cuore la promozione dei prodotti tipici e, più in generale, del territorio.

Anche in questo caso, la strada da percorrere è quindi quella della ricerca di accordi interaziendali, orizzontali e verticali, e della creazione di nuove marche-ombrello (sempre più multi-prodotto/del territorio). Naturalmente, l'implementazione di queste nuove, possibili strategie esige il superamento di alcuni impegnativi ostacoli, che finora si sono dimostrati quasi insormontabili, sia a livello di governance che di modelli organizzativi.

Tutto dipenderà dal grado di apertura e dalla visione dei nostri piccoli-medi imprenditori posti di fronte a questa nuova sfida. In ogni caso, è ormai utopistico pensare di competere sui mercati internazionali senza la presenza di una marca nota e reclamizzata e la possibilità di esercitare un significativo presidio sui principali canali di sbocco dei propri prodotti. Purtroppo, si tratta di due condizioni vitali che davvero poche piccole e medie realtà agroalimentari italiane possono pensare di perseguire da sole.