Come ti modernizzo l'intera economia
Il ventennio che segue il 1950 costituisce la grande modernizzazione del paese: il reddito nazionale cresce quasi al 6% annuo, si riduce il peso dell'agricoltura e dell'autoconsumo, mentre la vita in città diventa la forma di insediamento prevalente. A dire il vero, non si è trattato di un miracolo perché alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, l'Italia è l'unico paese del Mediterraneo con una consistente base industriale. Se si vuole parlare di miracolo, questo va piuttosto attribuito all'età giolittiana (1900-1915), quando il paese conosce il maggior sviluppo dalla nascita dello stato unitario, dopo che, nell'ultimo decennio dell'Ottocento, per il cattivo andamento dell'economia, il fallimento delle maggiori banche e i gravi disordini sociali, aveva rischiato la sopravvivenza quale entità statuale.
La Prima Guerra Mondiale aveva rappresentato il punto di non ritorno sulla via dell'industrializzazione e negli anni fra le due guerre, nonostante i sobbalzi dell'economia, si erano formati importanti nuclei imprenditoriali e manageriali, come la Fiat di Agnelli e Valletta, come la coorte di manager che darà vita, attorno a Oscar Sinigaglia, alla siderurgia pubblica, come i tecnocrati che, guidati da Alberto Beneduce, fondano l'Iri, come gli ingegneri che perforano il sottosuolo nell'ambito dell'attività dell'Agip. Il periodo che segue la Seconda Guerra Mondiale registra l'enorme vitalità del popolo italiano, che vuole un'abitazione, formidabile moltiplicatore economico, e l'automobile, lo strumento principale di un altro suo insopprimibile bisogno, la libertà di movimento. I politici assecondano questo slancio. Aprono, spesso contro la volontà degli industriali, al commercio internazionale: è del '51 l'adesione alla Comunità europea del carbone e dell'acciaio, mentre nel '57 l'Italia è fra i fondatori del Mercato comune europeo. Del resto, in quegli anni la politica economica è un impasto di monetarismo e keynesismo. Il Governatore della Banca d'Italia Menichella prosegue nel rigore creditizio di Einaudi, mentre Fanfani vara il Piano casa e il governo De Gasperi dà vita alla Cassa per il Mezzogiorno. In questo contesto, grande impresa e grandi imprenditori (Valletta, Sinigaglia, Mattei, Olivetti) giocano un ruolo di primo piano. L'idea è che il mercato non sia un dato ma possa essere allargato, che la torta possa essere maggiore per tutti. Ci sono anche i perdenti: quelle aziende che, come la Terni e la Montecatini, si comportano come fra le due guerre, riparandosi dietro lo scudo dei cartelli e del protezionismo, arnesi ormai inutilizzabili. Ma appaiono anche uomini nuovi (i produttori di elettrodomestici Zanussi, Borghi, Fumagalli), mentre l'apparato produttivo s'irrobustisce: i sarti diventano industriali dell'abbigliamento, i calzolai calzaturieri, i falegnami mobilieri. Il cambiamento sociale è di portata epocale. L'emigrazione dal Sud ha caratteri biblici, mentre le fabbriche crescono a dismisura, come Mirafiori che nel 1959 raddoppia. Questa grande trasformazione non è governata né all'interno dei luoghi di produzione, dove le rappresentanze dei lavoratori contrastate senza lungimiranza dalle aziende, si rivelano inadeguate, né all'esterno. Valletta affermava che il suo mestiere era creare lavoro, al resto doveva pensare lo Stato, che però non ci riusciva in una città come Torino dove, a cavallo del 1960, la popolazione cresce di centinaia di migliaia di abitanti. Si intravede intanto la degenerazione dello Stato imprenditore, che ha conosciuto grandi traguardi con l'Eni di Mattei, la Finsider di Sinigaglia, l'Alfa Romeo di Luraghi. Al culmine del successo, come in Germania, si sarebbe dovuto dar corso a un processo di privatizzazione. L'impresa pubblica, invece, cresce orientata soprattutto da motivi di consenso politico. Né lo Stato si impegna nella funzione di regolatore dell'attività economica: non c'è antitrust, né protezione degli investitori in Borsa, la legge bancaria appare inadeguata. Sono questi i limiti di un periodo straordinario che qualcuno ritiene avrebbe potuto portare l'Italia su posizioni di prima fila nell'economia mondiale. L'idea di una drastica discontinuità nel senso di una forte modernizzazione tuttavia resta: le condizioni del 1970 sono più simili a quelle di oggi che non a quelle di vent'anni prima.