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Cina, l'Europa si difende

, di Claudio Dordi - professore associato presso il Dipartimento di studi giuridici
Non è l'adesione ai principi del liberismo a mettere in crisi le produzioni del Vecchio Continente, che utilizza persino i dazi

Giulio Tremonti ha colpito ancora: dopo l'euro, la principale rovina per le economie dei paesi occidentali sarebbe il "mercatismo", cioè l'adesione indiscriminata ai principi del liberismo economico senza tenere alcun conto degli effetti negativi sofferti dalle nostre imprese per la concorrenza aggressiva dei produttori di altri stati (Cina soprattutto) che non sono costretti a rispettare i medesimi, stringenti, standard ambientali, sociali e qualitativi vigenti in Europa. La reazione proposta da Tremonti non è nuova: innalzare le barriere protezionistiche (dazi doganali, quote all'importazione, etc.). Nel mirino vi è, in particolare, l'Organizzazione mondiale del commercio (Omc), che sarebbe il principale strumento per forzare gli stati membri ad aprire le proprie economie senza occuparsi adeguatamente di stabilire standard minimi obbligatori uguali per tutti o quantomeno armonizzati.

Ma è proprio vero che la Ce non ha protetto le proprie industrie dal "pericolo cinese" e che l'Omc obbliga a una liberalizzazione indiscriminata? È vero che gli standard sociali, ambientali e qualitativi vigenti in Cinasono meno severi dei nostri? Il principale vantaggio competitivo delle imprese cinesi deriva da obblighi meno stringenti quanto agli standard produttivi? Quale reazione sarebbe opportuna, o meglio, giuridicamente giustificata?

Tenendo conto dei limiti che una risposta basata solo sull'analisi delle norme può avere, si deve rilevare che l'Omc non obbliga gli stati a una completa liberalizzazione degli scambi internazionali e consente l'applicazione di misure difensive ai membri. La Ce ha utilizzato in modo massiccio gli strumenti di protezione a disposizione, come i dazi antidumping (dazi destinati a contrastare l'importazione di merci a prezzi inferiori al prezzo praticato nel mercato di esportazione), risultandone il terzo utilizzatore nell'ultimo decennio.

In più l'Omc ha consentito di attribuire alla Cina (e al Vietnam) la qualifica di economia non di mercato e, di conseguenza, i prezzi che si formano sul mercato cinese possono essere disconosciuti nella procedura mirante all'applicazione dei dazi antidumping, rendendone molto più semplice l'imposizione. Infatti, al posto del prezzo praticato in Cina, si può adottare, quale termine di confronto con il prezzo all'esportazione, quello che si forma in un mercato terzo. Visto che non vi sono regole precise per la scelta del mercato terzo, la Ce opta per stati in cui il costo della vita è superiore a quello cinese, in cui, cioè i prezzi sono più elevati, consentendo di rilevare quasi sempre il dumping.

Quanto agli standard, è vero che l'Omc non prevede regole minime né per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, né per il rispetto dell'ambiente. La Ce ha provato a convincere gli altri stati a introdurre la cosiddetta clausola sociale, in base alla quale si sarebbe potuto bloccare le importazioni da un paese che mancasse di rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori, ma soprattutto i paesi in via di sviluppo hanno respinto la proposta. Per le norme ambientali il discorso è simile, tuttavia è possibile, in base alle regole dell'Omc, bloccare l'importazione di un prodotto che può provocare danni ambientali nel luogo del suo utilizzo. In generale, comunque, bloccare le importazioni di un prodotto i cui effetti negativi (ambientali o sociali) si esauriscono nel paese di produzione non è legittimo.

Quali strumenti di reazione utilizzare? Non sembrano esservi alternative al negoziato internazionale. Ad esempio, invitare la Cina e altri paesi in sviluppo ad aderire alle convenzioni internazionali dell'Organizzazione internazionale del lavoro e a quelle per la protezione dell'ambiente. Misure protezionistiche illegittime, invece, potrebbero provocare guerre commerciali dall'esito incerto.