China inc. tra dubbi e opportunita'
Dalla fine degli anni Novanta, gli investimenti esteri delle imprese italiane nei paesi emergenti e in Cina hanno alimentato la retorica della delocalizzazione e della perdita di capacità industriale del paese. Quando è emerso un consenso sul fatto che produrre e vendere all'estero è non solo fondamentale per concorrere, ma spesso indispensabile per garantire la continuità aziendale e salvaguardare l'occupazione in Italia, un altro timore è sorto. Che i capitali cinesi (e non solo) si stiano comprando il meglio del Made in Italy, dai marchi del lusso ai produttori specializzati della meccanica, dai (pochi) grandi gruppi alla multitudine d'imprese famigliari vanto del Quarto capitalismo tricolore.
âžœ Chi c'è dietro i marchi cinesi
La grande crisi, la cui fine è forse arrivata anche in Italia, lascia veramente la nostra industria alla mercè di scaltri investitori e manager che vengono da così lontano e così poco sanno della nostra storia?
Non è che dietro nomi come Fosun, Hony, Haier, CIC ecc, si celino interessi poco chiari, magari quelli del partito comunista o delle forze armate cinesi? Oppure, al contrario, per i capitali cinesi andrebbero srotolati i tappeti rossi, in un paese che fatica a essere attrattivo per le multinazionali e in un momento in cui le imprese italiane rischiano di perdere terreno di fronte alla rapidità di cambiamenti tecno-organizzativi profondi che, come la manifattura addittiva, l'Internet of things o i big data, richiedono disponibilità finanziarie che i cinesi hanno?
Sono domande legittime e la risposta è che in medio, di solito, stat non solo virtus ma anche veritas. La Cina invecchia rapidamente, si esaurisce il bacino di contadini ansiosi di migrare verso le zone costiere e il costo del lavoro aumenta, per la crescita è necessario aumentare il peso dei consumi interni e dei servizi. Pechino è consapevole che per lo sviluppo futuro è necessario contare su national champions che competano sulla base del marchio, della tecnologia, della rete di distribuzione, magari un giorno anche di uno stile proprio di management. E che accumulare tante competenze richiede crescita per linee esterne, per cui è opportuno mettere in campo risorse pubbliche all'altezza delle ambizioni. Scoprendo allora il fianco a chi sospetta che China Inc. giochi una partita poco trasparente, in cui politica ed economia si confondono.
Però una crescita più vigorosa in Europa, e in Italia, chiede investimenti produttivi, condizione indispendabile per combattere disoccupazione, povertà e precarietà. Ben vengano allora gli investimenti cinesi, realizzati sempre più spesso da imprese private. Di esempi positivi ce ne sono vari anche in Italia. Fa scuola l'esperienza di Zoomlion, che ha permesso alla Cifa di diventare il partner minore del gruppo numero uno al mondo nei macchinari per l'edilizia, superando il primato della società tedesca Putzmeister. Oppure di Caruso, che da quando ha un proprietario cinese sta seguendo una strategia di crescita che da Parma la sta portando nel mondo. In ambedue i casi, come in altri, una forte logica industriale ha convinto grandi gruppi cinesi a puntare sull'Italia.
➜ Come meritarsi la nuova globalizzazione
Resta vero che gli investimenti cinesi all'estero sono fenomeno che oltre a non passare inosservato per le sue dimensioni, va analizzato con cautela ed equilibrio.
Questi investimenti, anche quando privati, vanno trattati come qualsiasi altro investimento estero o richiedono un approccio sui generis?
Accogliere gli investimenti cinesi, soprattutto di matrice pubblica, rappresenta un patto col diavolo, perché conduce necessariamente ad accettare condizioni sottili e vincoli potenzialmente dannosi? Intrecciare relazioni di business con gruppi cinesi crea una leva con cui i cinesi influenzano le scelte dei governi e dell'opinione pubblica nei paesi in cui si radicano? Gli investimenti cinesi mettono in pericolo il modello sociale europeo o lo rafforzano? Qual è il rischio che la preferenza cinese per relazioni bilaterali con ogni paese europeo, e non con Bruxelles, indebolisca il potere negoziale dell'Europa? Visto lo scetticismo che Washington ha mostrato nei confronti degli investimenti cinesi, arrivando in taluni casi a vietarli per motivi strategici, quali sono le conseguenze per le relazioni transatlantiche del benign neglect con cui invece l'Europa li ha accolti?
In ogni caso è fondamentale che questa manifestazione della globalizzazione si accompagni a sforzi per meritarsi un diritto ad operare che non è automatico ma passa attraverso comportamenti giuridicamente ed eticamente giusti, qualche volta anche virtuosi, che vanno al di là del dettato della legge. È una lezione che le imprese italiane hanno appreso e grazie alla quale riescono ad avere successo in Cina e in altri mercati emergenti, ed è lecito aspettarsi lo stesso dalle multinazionali cinesi.