Chi deve pagare per il consulente
Un significativo numero di banche italiane si sta interrogando su quale impostazione dare al servizio di consulenza finanziaria ridisegnato dalla normativa Mifid che, sebbene non recente, ha sinora spesso trovato delle risposte di adesione formale più che sostanziale al dettato normativo. In questo quadro si inserisce una normativa varata dalla Fsa inglese (l'autorità di vigilanza dei mercati finanziari britannici) che nel ridisegnare il rapporto tra consulente e cliente ha ulteriormente rafforzato la già presente disciplina sugli incentivi pagati all'intermediario da un soggetto diverso dal cliente (inducement), vietando a partire dal 2013 alle società prodotto di corrispondere ai consulenti commissioni, pagamenti o altre forme di incentivo.
La ratio della normativa è chiara e coraggiosa allo stesso tempo: è chiara in quanto la migliore garanzia che il consulente eroghi un servizio nel pieno interesse del cliente è che lo stesso riceva la propria remunerazione soltanto dal fruitore del servizio non potendo essere condizionato da alcuna forma di pagamento da parte delle società prodotto; è coraggiosa in quanto il conto economico delle banche (soprattutto italiane) riposa largamente sulle retrocessioni riconosciute dalle società prodotto e pertanto questo cambiamento di approccio mette in discussione uno schema consolidato di funzionamento di quest'area di business. Sebbene la normativa inglese non abbia alcun impatto nel nostro paese, è inevitabile che si sia avviata una discussione sull'opportunità di andare anche in Italia in questa direzione valutando le conseguenze che l'adozione di una simile regola potrebbe avere sull'industria dell'asset management. La strada che la nuova disciplina inglese indica con chiarezza e che potrebbe essere avviata anche a normativa vigente è quella del collocamento alla clientela delle sole classi istituzionali con il conseguente venir meno della distinzione rispetto alle classi retail che sono caratterizzate dalla presenza di commissioni di gestione più elevate finalizzate esclusivamente alla remunerazione, per il tramite delle cosiddette retrocessioni, delle reti distributive. L'effetto immediato e dirompente di una simile scelta sarebbe, dal lato della distribuzione, quello di obbligare le banche a chiedere al cliente una remunerazione esplicita per il servizio offerto che necessariamente dovrebbe essere allineata con la qualità (effettiva e percepita) dello stesso e, dal lato della produzione, quello di perdere un'arma commerciale nella promozione dei propri prodotti e di rendere esplicita la capacità di creare valore rispetto al benchmark dei gestori attivi.Un corollario importante di una simile scelta sarebbe infatti quello di indurre ad effettuare delle scelte di campo tra gestione attiva e gestione passiva che, dal lato della distribuzione, non dovrebbero essere guidate da finalità legate alla maggiore remunerazione ottenuta quanto piuttosto alla effettiva capacità di generare rendimenti differenziali positivi rispetto ai mercati di riferimento. Ciò dovrebbe favorire l'uscita dal mercato di tutti quei prodotti che dichiarano obiettivi di investimento finalizzati al superamento del benchmark esclusivamente per giustificare le maggiori commissioni di gestione (da retrocedere ai distributori) piuttosto che per comprovate capacità gestionali e che proprio per recuperare un po' di redditività propria riescono grazie alla scelta di opportuni parametri di riferimento (indici price index versus total return) a caricare sui clienti commissioni di incentivo chiaramente non motivate dalle performance realizzate. La sensazione è che una disciplina in linea con quella varata dall'Fsa potrebbe dare un ulteriore importante contributo nel senso della trasparenza anche all'interno di un segmento, quello dei fondi comuni, che già si caratterizza per standard particolarmente elevati rispetto ad altre tipologie di prodotti. Il vero obiettivo da centrare però sarebbe quello di recidere il cordone ombelicale che collega produzione e distribuzione per il tramite delle retrocessioni e che troppo spesso determina comportamenti commerciali product driven piuttosto che customer driven.