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Che bella città, se non diventa area metropolitana

, di Francesco Bertolini - docente del Master in economia e management dell'energia e dell'ambiente
Quando l'urbanizzazione crea linee ininterrotte di cemento ed esalta il valore della produttività

Le città crescono. Così come si invoca la crescita economica, anche le città vedono nella crescita uno dei loro obiettivi. Crescono in urbanizzazione, in numero di abitanti, in infrastrutture, creando linee ininterrotte di cemento che paradossalmente eliminano i confini, creando le cosiddette grandi aree metropolitane.

Non si capisce cosa ci sia da rallegrarsi in questa nuova definizione. Si capisce molto bene ciò che si perde, un po' meno cosa ci si guadagna. Mentre se per l'uomo crescere significa conoscere, imparare, capire e sapere per l'economia e le città crescere significa distruggere: la storia, le tradizioni, il territorio, l'ambiente, fino a, nel caso delle città, i propri confini.

Si cresce per linea retta, disegnando al computer strade, metropolitane e aree residenziali che siano più funzionali alla velocità, elemento caratterizzante della crescita.

Ci si deve muovere più velocemente, si deve produrre più velocemente. Le nuove tecnologie stanno ormai, in un modo spaventosamente accelerato, peggiorando la qualità del nostro lavoro, obbligandoci, nello stesso periodo di tempo, a realizzare prodotti e soprattutto servizi ad un ritmo infinitamente superiore rispetto al passato senza che nessuno evidenzi come le nostre capacità di concentrazione, il nostro livello di soddisfazione siano sostanzialmente rimasti identici a quelli di sempre. La nostra mente e il nostro tempo sono risorse scarse, come l'ambiente in cui viviamo eppure ancora oggi si parla di aumento della produttività come fattore per competere a livello internazionale.

Perché l'innovazione tecnologica non si traduce in un miglioramento della qualità del lavoro e di conseguenza della vita; per quale motivo si deve produrre cento volte ciò che si produceva in passato avendo come risultato molto meno tempo libero (già il concetto di tempo libero dovrebbe far riflettere su un sistema che implica automaticamente una massa di "nuovi schiavi").

In uno scenario simile le città si adeguano. Scompaiono le piazze, divenute luoghi di passaggio e non più di incontro. Fino a pochi anni fa nelle piazze delle città italiane, ancora cuori pulsanti, era possibile incontrare gruppi di persone, pensionati, che parlavano di politica, di borsa,di calcio; a questi gruppi ci si poteva aggregare, senza motivi particolari, ma proprio per quella alchimia particolare che era all'origine del concetto di piazza.

Oggi la piazza non esiste più. Le piazze a volte riuniscono, soprattutto per eventi musicali, grandi folle, ridotte a un insieme di persone, in quanto non è più la piazza l'origine dell'aggregazione. Si sontrasformate inluoghifisici, non sono più l'anima della città.

Cosa è successo in pochi anni? Perché le grandi città italiane e purtroppo anche come molte piccole e mediecittà di provincia, han perso la propria anima? Nelle città che vanno di corsa, ultra funzionali, i luoghi di incontro, dove si produce "un tessuto sociale" han perso la loro dignità, il loro senso di esistere; si perde tempo equesto non è più concepibile.

E' troppo facile sostenere che i centri commerciali abbiano preso il posto della piazza; troppo facile e troppo triste. C'è qualcosa di più profondo in questo mutamento antropologico; la piazza era il luogo più bello della città, dove tutti potevano respirare bellezza, storia e cultura, era la collezione permanente più importante e più condivisa della città.

Oggi non si condivide più niente; il benessere individuale oggi non è, come è sempre stato nella storia, una condivisione di piaceri e di bellezza ma coincide con l'esclusività, con il lusso, in una perversione culturale che non può che trasformarsi in un degrado, specchio di un modello che, nel nuovo millennio, mostra ormai evidente tutti i segni del suo declino.