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Al mercato mondiale delle regole chi stabilisce gli standard?

, di Giorgio sacerdoti - ordinario di diritto internazionale della Bocconi e presidente dell'organo d'appello del Wto
Una corsa al ribasso nei livelli minimi di qualità falsa la concorrenza tanto quanto il dumping. Ma su chi deve decidere di questi livelli la discussione è aperta

Secondo l'Economist, l'Europa sta battendo gli Stati Uniti nello stabilire standard per prodotti e servizi, perché le imprese preferiscono regole certe, anche se pesanti, al rischio di confrontarsi con discipline diverse a seconda del mercato in cui operano. Finora, invece, sembrava che i liberali inglesi e le imprese multinazionali rifiutassero questa politica comunitaria come una costosa overregulation, un argomento in più contro gli eurocrati di Bruxelles, accusati di ignorare le esigenze degli operatori.

È stato forse l'allarme dei giocattoli cinesi dannosi per la salute a fare cambiare idee di qua e di là dell'Atlantico. Per effetto dell'outsourcing a livello internazionale e della globalizzazione della produzione, gli stessi marchi globali non possono accettare che prodotto a buon mercato sia sinonimo di scarsa sicurezza. È proprio ciò che avviene però se le regole non sono uguali per tutti, se il loro livello non è adeguato e se i controlli sono carenti. È inaccettabile una concorrenza globale distorta da una corsa al ribasso degli standard minimi di qualità, non meno di quella falsata da dumping. Ecco che appare superato l'approccio americano, imperniato su pochi standard obbligatori, la responsabilizzazione dell'impresa e la sanzione a posteriori delle class action dei consumatori.

Ma chi deve decidere gli standard e come garantirne il rispetto? I paesi consumatori, una loro coalizione o organismi come la Fao e il Wto? Oppure il mercato, cioè le imprese stesse, sotto la sorveglianza di autorità di vigilanza? Oggi si battono tutte le vie, con risultati difficili da decifrare. In verità una disciplina unilaterale efficiente da parte di una grande economia ha un effetto a catena: anche le imprese esterne a quella giurisdizione trovano conveniente adottare lo standard per le loro attività, i loro beni e i servizi, come segnalava l'Economist. Quanto all'autodisciplina del mercato, dopo la crisi dei mutui subprime esso non gode di buona stampa. In altre aree, come gli standard ecologici, il compito spetterebbe agli organismi internazionali, capaci di contemperare esigenze e capacità delle varie economie.

Un discorso simile a quello per i prodotti si può fare per le regole dei mercati, da quelle antitrust agli standard contabili per le imprese, alle regole di governance per le società, come quelle introdotte dalla legge Usa Sarbanes-Oxley dopo lo scandalo Enron.

In Europa, si assiste a un allineamento spontaneo sulle regole di maggior rigore e trasparenza societaria introdotte oltre atlantico. Ma allo stesso tempo si notano segni di insofferenza: aumentano le società europee che abbandonano la quotazione a Wall Street per sfuggire alle richieste della Sec, l'equivalente della Consob.

In questo quadro confuso, una svolta potrebbe essere rappresentata dalla proposta agli Usa, fatta dal cancelliere Angela Merkel, di armonizzare le regole in modo sistematico, settore per settore. Chi potrebbe resistere a una simile uniformazione tra i due più grandi mercati mondiali? L'idea sembra buona, soprattutto se saranno coinvolte le imprese. Esse gradiranno lo sforzo di convergenza legale e di mutuo riconoscimento: una disciplina uniforme ed efficiente che non significhi rinuncia alla deregolamentazione dove essa sia giustificata. Dopo una prima risposta americana favorevole, il progetto sembra tuttavia essere scomparso dall'agenda. L'esigenza di fondo però resta immutata.