Agenzie in declino
Il dibattito sulle agenzie statunitensi di rating (Ficht, Moody's, Standard and poor's), che occupano una posizione di monopolio sul mercato, è legato al venire meno delle certezze predittive dei loro modelli sia per le imprese (è di questi giorni la condanna di Standard and poor's da parte del tribunale di Milano per il rating sovrastimato attribuito a Parmalat fino a ridosso del suo default ) e oggi in particolare per la valutazione delle posizioni finanziarie dei singoli stati.
Peraltro, gli stati sono stati costretti a indebitarsi per evitare quel default dei mercati finanziari che paradossalmente le stesse agenzie di rating avevano contribuito a creare. Questa debolezze dei modelli di analisi dei mercati cominciano mostrarsi, non casualmente, con l'insorgere della crisi finanziaria e poi economica. Nel 2008, all'inizio dei crolli finanziari, le agenzie di rating non sono state in grado di prevenire il default perché in sostanza condividevano i modelli culturali, troppo autoreferenziali, che ispiravano quei mercati e alimentavano un'illusoria ed eterna abbondanza. Proprio in quegli anni le agenzie assegnavano la tripla A non solo a banche d'affari che sarebbero fallite ma anche a fondi dai nomi rassicuranti ed esotici (scuto totale, protezione totale, timberwolf, il nome di un supereroe) che contribuivano ai risultati eccellenti dei loro bilanci e di banche d'affari. I modelli di analisi cominciano così a mostrare le prime crepe che si allargano in tempi recenti quando, all'insorgere del conflitto libico, il rating assegnato alla Libia risultava migliore di quello della Grecia, salvo diventare carta straccia in pochi giorni. Ma perché questi errori? Peraltro doppiamente gravi perché privi di ogni traccia di un'autocritica? Perché oggetto di incertezze sono quasi sempre i paesi europei e non quelli di cultura anglosassone che non sono meno in difficoltà? Questi errori valutativi diventano poi elemento di incertezza per chi deve operare sui mercati, creando effetti distorti sui mercati, come la storia recente dimostra. Le ragioni di questo stato di cose, che rischia di aumentare lo squilibrio dei mercati e di creare un crescente conflitto culturale e finanziario tra gli attori con particolare riferimento, oggi, alle loro posizioni sui debiti sovrani dei paesi europei, sono da attribuirsi a un declino dei modelli di analisi, non più completamente idonei, sia per i parametri di contesto che culturali, a rappresentare le situazioni di equilibrio economico–finanziario. L'aspetto ambientale è da ricondursi al significativo aumento delle variabili in gioco che non sono più solo di carattere economico e finanziario ma anche legate ai sistemi sociali, culturali, religiosi, che diventano sempre più determinanti nei comportamenti e nelle decisioni. L'aumento del numero delle variabili e quello degli attori sulla scena mondiale rende particolarmente complicato afferrare il nesso tra variabili spesso apparentemente non correlate e costruire così modelli rappresentativi di una realtà in continuo e profondo cambiamento. In sostanza, la realtà va componendosi a una velocità superiore alla possibilità di essere imbrigliata in sofisticate formulazioni matematiche e statistiche. L'aspetto culturale è legato a un modello di interpretazione della realtà sociale basato sull'idea che l'economia e la finanza siano la misura e l'indicatore più significativo e importante per esprimere la bontà di un sistema socio-economico. L'affermazione di un'economia fortemente liberista dopo la caduta del muro di Berlino ha contribuito alla diffusione di un modello culturale dogmatico che ha fatto assumere all'economia e alla finanza una dimensione di valore morale (essere un bene in sé), ovvero di fine e non di mezzo. Pertanto è l'economia che, assumendo una sua dimensione autonoma rispetto all'uomo, definisce le regole per migliorare la società, soddisfa e crea bisogni sempre nuovi e stabilisce criteri per la sua valutazione in modo sempre più autoreferenziale, indipendentemente dalla composizione e dalla tenuta della società (la concentrazione e disuguaglianza nella redistribuzione della ricchezza, il livello di disoccupazione, la diffusione della scolarità), elementi che diventano così irrilevanti nella valutazione di un sistema socio-economico. Ma allora il rating della Libia è diventato in pochi giorni carta straccia per una mancata tenuta dell'economia o della società? La tenuta finanziaria della Grecia come quella del Portogallo, non dipende anche dalla capacità dei suoi cittadini di sopportare le restrizioni imposte dalle misure restrittive? Se, per contro, i cittadini americani fossero chiamati a sopportare misure profondamente restrittive, avrebbero lo stesso grado di tolleranza dei popoli europei per garantire la tenuta dell'equilibrio finanziario del loro sistema? Si può dunque esprimere un giudizio su un sistema socio-economico nel suo complesso basandosi solo su misurazioni finanziarie ignorando il sistema sociale che è chiamato a sopportarle? L'equilibrio finanziario di una società è qualcosa di astratto e indipendente rispetto alle persone che lo devono realizzare? No. È necessario ripensare a un modello culturale in grado di riconsiderare quelle variabili sociali che alla fine determinano i cambiamenti. L'aspetto sociale, infine, è legato alla crescente differenza che all'interno della civiltà occidentale sta assumendo un modello di società europea più attenta a sistemi di governance basati sulla sussidiarietà (il modello renano, quello dei distretti italiani) rispetto a quello della società statunitense legato a un modello di governance basato solo sul mercato. Il primo, più legato al rispetto delle dinamiche sociali, dimostra di essere più solido nella crisi rispetto al secondo, che mostra evidenti problemi di tenuta del sistema socio-economico. La civiltà occidentale, infatti, non è più oggi il tutto uniforme che era 30 anni fa quando il muro di Berlino teneva compatti i due modelli di società. Oggi i due modelli sono diversi: la disuguaglianza del reddito porta gli Usa più vicino alla Bolivia e alla Colombia che ai paesi europei, i quali mostrano, invece, di essere un insieme molto compatto. Così diventa sempre più difficile accettare che un modello interpretativo della tenuta di una società, basato sulla sola dimensione economico-finanziaria e sul singolo in una logica di breve periodo (principio del mercato), come sono i modelli della agenzie di rating dipendenti da un contesto culturale sempre più diverso, possa essere trasferito tout court in altri contesti socialmente e storicamente diversi, dove prevale la visione di sistema e una logica di lungo periodo (principio di sussidiarietà).
Per questi motivi è forse necessario pensare alla costituzione di un'agenzia di valutazione europea, più coerente con la storia e la cultura del Vecchio continente. Non in contrasto con le agenzie statunitensi ma perché insieme possano dare un contributo interpretativo di una realtà sempre più complessa e diversificata.