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Stagnante sara' lei, ma non la cultura

, di Anna Merlo - supervisore scientifico del Master in management dello spettacolo della Bocconi e ricercatrice presso l'Universita' della Valle d'Aosta
Industria creativa. Certe definizioni hanno fatto il loro tempo

Produttività 'stagnante': in questo modo, nella metà degli anni '60, due economisti statunitensi al servizio della Fondazione Ford definiscono la capacità produttiva del settore culturale, di contro alla capacità produttiva del settore industriale, dagli stessi definito a produttività 'progressiva', certamente in termini quantitativi, di efficienza, grazie ai progressi tecnologici. Progressi che invece non impattano significativamente sulle modalità produttive delle istituzioni artistiche, caratterizzate da manualità e artigianalità, e dunque da una produttività senza dubbio più bassa, sempre in termini quantitativi, di efficienza.

Bassa produttività che, combinata con costi alti e crescenti, al seguito dei ricavi dei settori a produttività progressiva, genera un patologico rapporto tra ricavi e costi tale per cui, all'aumentare della produzione, nei settori a produttività stagnante il margine, anziché aumentare, tende addirittura a ridursi. Condizione considerata inaccettabile e insostenibile, dal classico punto di vista economico, a meno di interventi di sostegno da parte di finanziatori terzi. Il che peraltro, a pensarci, caratterizza non soltanto il settore culturale, ma anche altri settori, nei quali pure sono le menti, le mani, i corpi umani a produrre e non macchine, come ad esempio l'artigianato, lo sport, l'educazione, la ricerca, la sanità, i servizi alle persone. 'Stagnante': un termine che contiene un giudizio, negativo, certamente figlio dell'epoca e della cultura in cui viene coniato: l'America del boom economico del secondo dopoguerra. Non sarebbe oggi il momento di cambiarlo, un simile termine? Non soltanto sostituendolo con qualche definizione neutrale, ma anche ripercorrendo con visione diversa, a distanza di ormai mezzo secolo, le valutazioni che allora hanno portato a formularlo. La produttività del settore culturale, e dei settori simili, è definita 'stagnante', in termini quantitativi, di efficienza, in raffronto a quella dei settori industriali. Ma ha senso, nell'epoca post-industriale in cui stiamo vivendo, mantenere come unici termini di raffronto industria, quantità, efficienza? Se invece pensassimo in termini di efficacia? Di qualità? Di innovatività? E perché no, anche di sostenibilità? Negli obiettivi perseguiti, nelle risorse e competenze impiegate, nella complessità dei processi produttivi, negli standard di riferimento per i risultati prodotti. Pensiamo in questa luce ai settori a rischio di produttività cosiddetta 'stagnante': non sono forse tra i settori potenzialmente più qualitativi e innovativi, sfidanti e intriganti, e dunque oggi più competitivi e strategici? E, per contro, non sta forse a questi livelli la crisi moderna dei settori industriali, quelli a produttività cosiddetta 'progressiva', e che stanno invece registrando gravi 'stagnazioni'? Forse è arrivato il momento di smettere di definire, e soprattutto di considerare, certi settori 'a produttività stagnante', è arrivato il momento di ri-attribuire loro, anche nominalmente, le valenze di qualità, innovatività, competitività, strategicità, e anche il valore economico, che un secolo di industrializzazione ha loro ottusamente sottratto, oltre ai significati sul piano storico, sociale e umano che essi hanno da sempre.Insomma, in attesa che persino il mercato arrivi a riconoscerne e dunque ripagarne il valore, cominciare intanto a non chiamarli più settori 'a produttività stagnante'.