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Produrre e-fuels nei paesi ricchi di rinnovabili e importarli in Europa potrebbe accelerare la transizione. Ma servono visione politica, tecnologie mature e nuove alleanze geopolitiche

I cambiamenti climatici dipendono dall’innalzamento della temperatura e, secondo l’Accordo di Parigi, bisognerebbe fare in modo che l’incremento stia “ben al di sotto dei 2°C continuando a fare sforzi perché non superi 1,5°C”. Il raggiungimento di questo obiettivo dipende dal contenimento dell’accumulo di GHG (Greenhouse Gases) in atmosfera in quanto conta non solo quando verrà raggiunto il target (net zero) di emissioni (l’obiettivo europeo, come noto, è il 2050) ma anche la quantità di GHG accumulata in atmosfera prima di raggiungerlo. Al riguardo, le scelte sul dove (in quali settori), come (con quali soluzioni) e quando (con quali priorità) indirizzare gli sforzi di decarbonizzazione sono cruciali per l’efficacia della lotta ai cambiamenti climatici. 

In ogni caso, net zero significa che il raggiungimento del target può avvenire non solo con la riduzione delle emissioni ma anche attraverso la cattura della CO2, perfino direttamente dall’atmosfera (Direct Air Capture). Per farne cosa? Per produrre combustibili sintetici attraverso l’uso di elettricità (“combustibili elettrici”) con cui ottenere idrogeno (via elettrolisi) e combinarlo con la CO2 catturata (CCU-Carbon Capture and Utilization). In questo caso, quando l’elettricità è fornita da fonti rinnovabili ‘carbon free’ la CO2 emessa nella fase di utilizzo del combustibile sintetico è pari a quella catturata e l’intero ciclo sarà ‘carbon neutral’. Questo è un metodo con cui si possono ottenere quasi tutti i combustibili in uso (dal metano alle benzine e ai gasoli, dal metanolo al kerosene) e utilizzarli senza emissioni nette aggiuntive di CO2 con un mercato che è molto ampio. Si stima infatti una potenziale domanda in Europa pari a 30-50% dei consumi solo nel settore dei trasporti (ma gli efuel possono penetrare anche in altri settori, specialmente negli usi ‘hard to abate’).

Tutto ciò non senza controindicazioni. In particolare, quando l’elettricità per produrre il combustibile sintetico è prelevata dalla rete elettrica centralizzata alimentata ancora in parte da centrali a fonti fossili, la produzione del combustibile potrebbe essere responsabile di un aumento delle emissioni nella fase di generazione elettrica e quindi non sarebbe totalmente carbon neutral. La neutralità carbonica si avrebbe invece se il parco elettrico fosse già completamente (o quasi) decarbonizzato o se la produzione elettrica da rinnovabili fosse interamente dedicata alla produzione del combustibile (senza possibilità di allocazione alternativa delle rinnovabili, cosa improbabile in molti paesi avanzati). 

Cosa fare allora? Un’idea potrebbe essere quella di importare i combustibili elettrici da quei paesi ove le risorse rinnovabili sono molto abbondanti, a basso costo e senza alternative di allocazione (rinnovabili pienamente dedicate). Per intenderci, i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (MENA), ma non solo. Nel frattempo, dedicare le rinnovabili domestiche alla decarbonizzazione del parco elettrico (una sorta di doppio dividendo ambientale). Ciò consentirebbe di ridurre i tempi di raggiungimento dei target di riduzione delle emissioni e al contempo di contenere l’accumulo di CO2 in atmosfera.

Però, con almeno due caveat. Primo, la tecnologia non è ancora pienamente matura (in special modo, quella per la cattura diretta della CO2 dall’atmosfera) e i costi di abbattimento sono ancora alti. Secondo, rimane il problema geopolitico delle importazioni di energia da paesi a possibile rischio politico. La questione etica della sottrazione di risorse in paesi in via di sviluppo, invece, è da ridimensionare: trattandosi di risorse rinnovabili non vi sarebbe il graduale esaurimento di risorse stock in quei paesi.

Dall’altro lato, i vantaggi sarebbero evidenti. Quelli ambientali, in precedenza sottolineati, ma anche quelli economici nella misura in cui questa catena di approvvigionamento consentirebbe di preservare le infrastrutture di trasporto, distribuzione e utilizzo già disponibili sia nei paesi di esportazione che in quelli di importazione (si pensi, in particolare, all’importazione di metano elettrico dai MENA usando le infrastrutture già esistenti per il gas naturale e senza la necessità di imporre il phasing out delle tecnologie di utilizzo già disponibili). 

In conclusione, una maggiore attenzione (anche politica) a questa soluzione forse consentirebbe di agevolare la transizione energetica (anche se si dovrebbe parlare più di rivoluzione che di transizione) e di rendere più realistici gli ambiziosi obiettivi di contenimento del global warming.