Sono operai o consumatori?
Negli ultimi decenni la Cina, grazie alla capacità delle infrastrutture di trasporto e a elevati livelli di produttività, ha offerto nei settori manifatturieri costi della manodopera molto bassi. Fattori che hanno permesso alla Cina di attirare gli investimenti esteri e diventare la fabbrica del mondo per molti prodotti, non solo a basso contenuto tecnologico.
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Fabrizio Perretti |
Le cose però stanno ora cambiando, soprattutto in quel fattore per il quale la Cina è diventata famosa: il costo della manodopera.Dall'inizio dell'anno molte delle imprese della provincia del Guangdong, dove si concentra una parte rilevante degli investimenti produttivi esteri, hanno rilevato un aumento dei salari del 10%. Negli ultimi cinque anni l'incremento annuale è stato tra il 12 e il 14%, ma in alcune zone si sta ormai avvicinando al 20%. Il fenomeno è tutt'altro che congiunturale. I bassi costi della manodopera sono stati per molti decenni il risultato di una moltitudine di migranti che dalle campagne si riversava davanti ai cancelli delle grandi fabbriche, tentando di sfuggire alla miseria.Una moltitudine che si adattava a lavorare duramente, con orari che spesso superano il limite di legge, con stipendi anche inferiori al salario minimo ufficiale e soggetta a disciplina e metodi di estrema durezza. Una massa di migranti disposta a vivere negli affollati dormitori delle aziende e non tutelata dalle amministrazioni locali, desiderose unicamente di soddisfare gli imprenditori e di attirare così investimenti. Il miracolo cinese è stato il frutto dei sacrifici di queste persone. Ogni generazione successiva, però, forte del benessere guadagnato da quella precedente, si è dimostrata sempre meno disposta a sostenere gli stessi sacrifici. Risulta infatti difficile esibire e propagandare i portenti del miracolo economico, senza che nel frattempo la classe operaia non reclami legittimamente la sua parte. La diminuzione della pressione dell'ondata migratoria che preme sulle fabbriche spiega inoltre l'accresciuto potere degli operai nelle loro rivendicazioni, che sono state sia salariali sia di miglioramento delle loro condizioni di lavoro e che sono spesso sfociate in scioperi e proteste. Per le imprese, accogliere le richieste degli operai su ciascun fronte ha un impatto sul costo della manodopera. Non accoglierle significa sempre più il rischio di scontro sociale e di interruzioni della produzione, con effetti che si ripercuotono negativamente sul rispetto dei tempi di consegna dei prodotti all'interno di ciascuna filiera globale. Un caso esemplare, assurto alle cronache degli ultimi mesi, è quello della Foxconn (fornitore di molti prodotti Apple, tra cui l'Ipad), che dopo una serie di incidenti, di suicidi da parte degli operai e di proteste sulle condizioni di lavoro, il mese scorso ha aumentato i salari del 16-25%.
Come reagiscono le imprese straniere di fronte a questo scenario? Molte non guardano più alla Cina come sede privilegiata dei loro investimenti produttivi e considerano sempre più lo spostamento degli investimenti esistenti in paesi come Vietnam e Indonesia. Salari in crescita non comportano però una fuga delle imprese straniere dalla Cina. Livelli di reddito più elevati aumentano infatti la dimensione del mercato interno cinese. Le imprese straniere in Cina cercano quindi sempre meno operai e sempre più consumatori. Il problema è che se le imprese, non solo straniere, spostano la produzione dalla Cina e non offrono più posti di lavoro, non solo perdono operai, ma rischiano di non creare nemmeno i consumatori. Una situazione che noi europei (ma anche gli americani), purtroppo, conosciamo molto bene.