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L’aumento dei prezzi è uno stato mentale

, di Dmitriy Sergeyev
L’impatto dell’inflazione va oltre i numeri. Tra trattative salariali stressanti, crescente sfiducia e shoe-leather costs, l’economia si scontra con la psicologia

Tra gennaio 2021 e gennaio 2023, i prezzi al consumo sono aumentati di oltre il 10% nelle economie avanzate — ben al di sopra del consueto +4% in due anni. In Italia i prezzi sono cresciuti del 15,4%, nell’area euro del 14,1% e negli Stati Uniti del 14,4%.

In questo periodo, le preoccupazioni per l’inflazione sono diventate il fattore numero uno nella vita delle persone. Negli Stati Uniti, ad esempio, queste preoccupazioni hanno superato nettamente quelle per l’accessibilità delle cure mediche, la violenza armata, il cambiamento climatico e l’immigrazione illegale. Non sorprende che molti analisti sostengano che l’impennata dei prezzi sia stata un fattore decisivo nell’esito delle elezioni presidenziali americane del 2024.

Quali sono i costi dell’inflazione?

Qualsiasi studente di macroeconomia introduttiva conosce le risposte standard. Dal punto di vista delle imprese, l’inflazione le costringe ad aggiornare regolarmente i listini, generando i cosiddetti menu costs. Per le famiglie, l’inflazione erode il potere d’acquisto della liquidità, spingendo le persone a tenere meno contanti a disposizione. Ciò comporta prelievi più frequenti da bancomat o banche — i cosiddetti shoe-leather costs — con conseguente aumento dei costi di transazione.

Gli economisti sottolineano sia i costi che i benefici di un’inflazione moderata. Nei dati del dopoguerra, un’inflazione più elevata è associata a una crescita complessiva maggiore nei paesi avanzati, dinamica spesso spiegata con la curva di Phillips, che rappresenta un trade-off negativo tra disoccupazione e inflazione. Inoltre, un’inflazione moderata e positiva riduce il rischio di cadere in una spirale deflazionistica, in cui crescita e prezzi crollano rapidamente.

Ma i non economisti percepiscono gli stessi effetti?

In un famoso studio del 1997, il premio Nobel Robert Shiller adottò un approccio allora insolito tra gli accademici: chiese direttamente alle persone perché odiassero tanto l’inflazione. Intervistò un campione rappresentativo di famiglie statunitensi, tedesche e brasiliane sulle loro percezioni. Tra i vari risultati, Shiller dimostrò che le persone percepivano i prezzi crescere più velocemente dei salari nominali, erodendo così il potere d’acquisto dei loro redditi.

Una ragione per cui gli individui sentono che i salari non tengono il passo (anche quando i dati dicono il contrario) è che questi non aumentano automaticamente con l’inflazione. I lavoratori devono attivarsi chiedendo aumenti nominali, il che può generare conflitti con i datori di lavoro. Non tutti sono negoziatori nati: la maggior parte delle persone rifugge dalle situazioni conflittuali come le trattative salariali. Anche se, alla fine, molti riescono a ottenere un aumento, il processo è psicologicamente costoso. Ricerche recenti di Joao Guerreiro (UCLA), Jonathon Hazell (LSE), Chen Lian (UC Berkeley) e Christina Patterson (Chicago Booth) hanno quantificato questi costi, rivelandoli piuttosto significativi. Pertanto, la logica da manuale secondo cui i salari nominali seguono l’andamento dei prezzi, e quindi i costi dell’inflazione sarebbero trascurabili, è fuorviante: i lavoratori devono sostenere costi psicologici e di negoziazione per garantirsi aumenti.

Di recente Stefanie Stantcheva (Harvard University) ha replicato ed esteso l’indagine originale di Shiller. Dopo aver confermato che le persone odiano l’inflazione, ha scoperto nuove evidenze: ad esempio, gli intervistati non percepivano alcun aspetto positivo dell’inflazione, inclusa la crescita economica complessiva più elevata.

Gli economisti si interrogano ancora sul perché la maggior parte delle persone non veda lati positivi nell’inflazione. Una teoria convincente è proposta da Rupal Kamdar (Indiana University, Bloomington) e Walker Ray (Chicago Fed): gli individui tendono a percepire più acutamente gli aumenti dei prezzi quando coincidono con shock dal lato dell’offerta — come rialzi di energia o alimentari — che deprimono anche la crescita complessiva. In questi episodi, l’inflazione appare come una cattiva notizia su due fronti, rafforzando l’idea che l’aumento dei prezzi vada inevitabilmente di pari passo con dolore economico. Tale associazione lascia poco spazio, nella percezione pubblica, alla possibilità che un’inflazione moderata, in altri contesti, possa invece accompagnarsi a una maggiore crescita.

Capire queste dimensioni soggettive e psicologiche dell’inflazione non è solo un esercizio accademico: è essenziale per i policymaker che vogliono progettare politiche efficaci capaci di alleviare il peso quotidiano dell’aumento dei prezzi e mantenere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Dmitriy Sergeyev

DMYTRO SERGEYEV

Bocconi University
Dipartimento di Economia