Referendum. Uno strumento svuotato dall'astensione strategica
Il referendum abrogativo è un istituto di democrazia diretta che permette ai cittadini di abrogare disposizioni di legge, modificando per tale strada la normativa in vigore in una data materia. L'iniziativa referendaria può essere intrapresa da una minoranza qualificata di elettori per la Camera dei Deputati (almeno 500.000), mentre l'effetto abrogativo si produce qualora la maggioranza assoluta di tali elettori esprima il proprio suffragio e i voti favorevoli all'abrogazione siano a loro volta la maggioranza di quelli validamente espressi.
Una rapida analisi dell'istituto e del suo ruolo all'interno delle dinamiche politiche consente di evidenziare tre diverse fasi. La prima in ordine temporale è quella che si è conclusa negli anni Ottanta; in essa il referendum ha permesso di sdrammatizzare importanti scelte del Parlamento su temi assai divisivi e di condurre il relativo dibattito (anche) all'interno del paese reale. Emblematici in tal senso sono stati i casi del referendum sul divorzio (1974) e sull'interruzione volontaria di gravidanza (1981). In tali circostanze, la chiarezza del quesito e il rilievo della materia hanno portato a un'ampia partecipazione popolare e a un effetto ampiamente positivo dell'istituto nel processo di modernizzazione del paese. La seconda fase può essere collocata nella prima metà degli anni Novanta, a partire dal referendum sulla preferenza unica (1991), e trova la sua acme con i quesiti del 1993 sul sistema elettorale del Senato e sul finanziamento pubblico ai partiti. Essa è stata caratterizzata dalla forte contrapposizione tra la classe politica dell'epoca, ormai debole e in declino, e una cittadinanza sui cui la prima non aveva più grande presa.Nella terza e attuale fase, il referendum ha perso la valenza di strumento "oppositorio" nei confronti di una classe dirigente ritenuta nel complesso inadeguata, per ritornare nell'alveo suo proprio, vale a dire quello di strumento volto a correggere le scelte parlamentari relative a temi specifici. Tuttavia, nonostante ciò, esso sembra entrato in una crisi profonda: nelle sei tornate referendarie che si sono susseguite dal 1997 a oggi, nessuno dei 24 quesiti proposti ha raggiunto il quorum di validità. Anzi, con l'eccezione del referendum sulla quota proporzionale del 1999 (49,6% di partecipanti al voto), i votanti non hanno più raggiunto il terzo degli aventi diritto, declinando fino al 23,3% del 2009. Questo dato è il frutto di numerosi fattori: da un lato, lo scarso seguito legislativo di alcuni referendum passati; dall'altro, la tecnicità di alcuni quesiti; sicuramente il progressivo disincanto verso la capacità della politica di affrontare i problemi del paese. In questo quadro, rilievo non secondario hanno avuto i comportamenti opportunistici dei favorevoli alle legislazioni già vigenti, i quali hanno preso la strada di disertare le urne, trovando nell'astensione fisiologica un potente alleato. Di conseguenza, la probabile invalidità della consultazione disincentiva la partecipazione al voto. Naturalmente, la scelta di disertare le urne non è priva di conseguenze. Su tutte, che il referendum invalido non produce alcun tipo di effetti: esso non impedisce di ripresentare il quesito nell'immediato futuro, né al Parlamento di modificare, anche radicalmente, la legge su cui è stato proposto il quesito. Discorso diametralmente opposto va fatto invece nel caso in cui il quorum strutturale venga raggiunto. In tale caso, il risultato referendario, sia esso positivo o negativo, preclude interventi in contrasto con esso, almeno fino a quando non siano da considerarsi mutate le condizioni politiche da cui è scaturito quel determinato risultato.In altre parole, con l'avvento dell'astensionismo strategico, i cittadini sembrano avere perso un mezzo per indirizzare e correggere le scelte politiche, e il processo decisionale pubblico un importante strumento di condivisione degli obiettivi da perseguire.