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Quando il troppo stroppia: lo stigma mediatico nell'industria nucleare

, di Peter Snoeren
Perretti e Piazza rilevano che le critiche possono indurre un'impresa ad abbandonare un settore stigmatizzato, ma l'esposizione mediatica eccessiva riduce l'ammontare di stigma che le persone riescono a percepire

In uno studio sull'industria nucleare, Fabrizio Perretti (Dipartimento di Management e Tecnologia) e il PhD Bocconi Alessandro Piazza (ora alla Columbia Business School) rilevano che le imprese hanno probabilità decisamente maggiori di abbandonare le attività nucleari nei periodi in cui queste sono più stigmatizzate. L'effetto è però più debole (e può trasformarsi in effetto negativo) quando l'esposizione mediatica è alta o quando le attività stigmatizzate costituiscono una quota rilevante del business totale. Gli autori riportano tali conclusioni in un articolo recentemente pubblicato da Organization Science (Volume 26, Issue 3): Categorical Stigma and Firm Disengagement: Nuclear Power Generation in the United States, 1970 – 2000 (doi: 10.1287/orsc.2014.0964).

Dal momento che abbandonare un determinato settore è costoso, le imprese non lo faranno facilmente. Perciò gli autori ipotizzano che sia tanto più probabile che un'impresa abbandoni un settore, quanto più questo è stigmatizzato. Sorprendentemente, la seconda ipotesi è che l'esposizione mediatica riduca la probabilità che un'impresa si disimpegni. Ciò è dovuto al fatto che il pubblico non risponde in modo proporzionale alla ripetizione delle informazioni, perché vi si abitua o perché, oltre certi limiti quantitativi, non riesce più a elaborarla. Inoltre, le imprese che hanno superato l'ondata iniziale di stigmatizzazione sono più difficilmente esposte di nuovo a pubblico scrutinio. L'ultima ipotesi afferma che le imprese con un maggiore coinvolgimento nei settori stigmatizzati li abbandoneranno meno facilmente. Per loro gli interessi sono troppi e le attività sono considerate "core", nonché parte integrante della missione e dell'identità dell'organizzazione, che sarà meno disponibile a cessare tali attività.

Gli autori testano queste ipotesi nel contesto della generazione di energia nucleare tra il 1970 e il 2010, durante il quale le attività nucleari furono stigmatizzate a causa di numerose proteste, due incidenti nucleari e l'impegno di diversi gruppi ambientalisti. Ad ogni modo, l'intensità dello stigma varia di anno in anno e gli autori la misurano come proporzione tra gli articoli usciti sul New York Times che dipingono l'industria in modo negativo, neutro o positivo. Inoltre anche l'esposizione mediatica, misurata dal numero totale di articoli, indipendentemente dal tono, varia col tempo. Infine, alcune imprese producono energia utilizzando solo combustibile nucleare, altre anche carbone, petrolio o gas. L'intensità dell'appartenenza alla categoria dipende infine dal numero di impianti posseduti dall'impresa rispetto al numero totale.

Per testare le ipotesi gli autori utilizzano regressioni e test di robustezza per valutare specificazioni e spiegazioni alternative. Le tre ipotesi risultano confermate.

Complessivamente i risultati forniscono tre importanti contributi alla teoria. In primo luogo, l'idea controintuitiva che le imprese più attive in un settore, e perciò più stigmatizzabili, siano quelle con la minore probabilità di disimpegno. Ciò significa che le imprese con una più forte identità sono anche quelle più disposte a soffrire lo stigma piuttosto che cambiare identità. Secondo, le imprese si attivano non solo quando gli attacchi sono diretti all'impresa stessa, ma possono intraprendere azioni drastiche anche quando subiscono una stigmatizzazione per associazione con un'attività. Infine, l'abbondanza di attenzione mediatica per un settore può, in realtà, ridurre la quantità di stigma che le persone riescono a percepire.