Le norme contro l’insider trading? Solo un placebo giuridico
Nelle aule universitarie e nei discorsi delle autorità di vigilanza, l’insider trading viene presentato come il male assoluto: dirigenti e addetti ai lavori sfruttano illecitamente informazioni riservate per arricchirsi a spese degli investitori comuni. Una minaccia, ci viene detto, all’integrità dei mercati e alla fiducia dei risparmiatori.
Eppure, un nuovo studio pubblicato sull’Oxford Journal of Legal Studies da Luca Enriques e Alessandro Romano (entrambi del Dipartimento di Studi Giuridici Bocconi) con Yoon-Ho Alex Lee (Northwestern University) mette fortemente in discussione questa narrazione rassicurante. Secondo i tre studiosi, le regole contro l’insider trading funzionano come una sorta di placebo legale: fanno credere agli investitori di essere protetti, mentre in realtà i “furbi” hanno ancora ampio margine per speculare.
Lo studio parte da una considerazione quasi banale. Chi conosce in anticipo una notizia importante sulla propria azienda può arricchirsi non solo comprando o vendendo le azioni della sua società, ma anche sfruttando gli stessi dati per muoversi su titoli collegati. È il caso, ricordano gli autori, del lancio di Disney+: un insider avrebbe potuto trarre vantaggio sia acquistando azioni Disney prima dell’annuncio, sia scommettendo contro Netflix, che perse in pochi minuti otto miliardi di capitalizzazione. La seconda strategia, più subdola, ha un nome: shadow trading.
E qui sta il paradosso. Insider trading tradizionale e shadow trading hanno effetti identici, sia sul funzionamento dei mercati sia sugli incentivi dei manager. Ma i regolatori li trattano in modo radicalmente diverso. In Europa e nel Regno Unito lo shadow trading è formalmente vietato, ma non risulta un solo caso in cui sia stato effettivamente scoperto e sanzionato. Negli Stati Uniti, invece, la sua regolamentazione è lasciata in gran parte alla contrattazione privata fra imprese e dipendenti. In sostanza, ai manager è vietato toccare le azioni della propria società, ma spesso è tollerato che operino “nell’ombra” su titoli collegati. «Il divieto dell’insider dealing tradizionale», scrivono gli autori, «illude gli investitori con un falso senso di sicurezza, mentre gli insider possono ancora avvantaggiarsi attraverso lo shadow trading.»
Perché questa disparità? La risposta, spiegano gli autori, è disarmante: gli investitori percepiscono come minaccia solo l’insider trading tradizionale. A dimostrarlo è una survey condotta su duecento investitori americani: il 62% ha indicato l’insider trading classico come fonte di guadagni illeciti, mentre appena lo 0,5% ha citato lo shadow trading. «Gli investitori riconoscono solo l’insider trading tradizionale come pratica dannosa,» osservano i ricercatori, «mentre quasi nessuno identifica lo shadow trading come una strategia redditizia.»
Ecco allora che il divieto funziona come placebo: i mercati appaiono protetti, la fiducia resta alta, gli investitori continuano a partecipare. Intanto, gli insider hanno ancora una via di fuga per monetizzare le informazioni riservate. Non è un caso se gli autori parlano di «una frode a danno del mercato, più che una frode di mercato».
Resta un dato inquietante: ciò che dovrebbe proteggere i risparmiatori finisce per avvantaggiare i professionisti ben organizzati — insider, hedge fund, investitori istituzionali — lasciando i piccoli con l’illusione di essere tutelati. È possibile che questo sistema, per quanto ingannevole, sia perfino più efficiente di un divieto totale, perché preserva la fiducia degli investitori comuni e, allo stesso tempo, consente che le informazioni si riflettano rapidamente nei prezzi delle azioni. Ma resta l’amara ironia: ciò che appare come tutela, in realtà, è in buona parte una messa in scena.
Luca Enriques, Yoon-Ho Alex Lee, Alessandro Romano, “The Placebo Effect of Insider Dealing Regulation”, Oxford Journal of Legal Studies 2025, Vol. 45, No. 3 pp. 753–774, DOI https://doi.org/10.1093/ojls/gqaf019