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La paura di perdere voti spinge la democrazia a perdere sé stessa

, di Barbara Orlando
Un nuovo studio di Livio Di Lonardo (Bocconi) e Tiberiu Dragu (NYU) mostra un paradosso insidioso: più un tema è al centro del dibattito pubblico — come la sicurezza o la lotta al terrorismo — meno le politiche dei governi rispecchiano davvero le preferenze dei cittadini

Che cosa succede quando un tema domina il dibattito politico, monopolizzando campagne elettorali, titoli dei giornali e paure collettive? Istintivamente penseremmo che questo accresca il controllo democratico: più un problema è “saliente”, più i cittadini dovrebbero riuscire a orientare le scelte dei governi. E invece no. Secondo una ricerca di Livio Di Lonardo, professore al Dipartimento di Scienze sociali e politiche della Bocconi, e Tiberiu Dragu, della New York University, accade esattamente il contrario.

Nel paper When salience undermines representation: democratic dilemmas in security and counterterrorism policy, pubblicato su Political Science Research and Methods (Cambridge University Press), i due studiosi dimostrano con un modello teorico che quando un tema “valoriale” come la sicurezza o la crescita economica diventa più elettoralmente rilevante, la distanza tra ciò che gli elettori vorrebbero e ciò che i rappresentanti fanno tende ad aumentare.

“Più un tema è saliente”, spiega Di Lonardo, “più i politici hanno incentivo a mostrarsi competenti, anche adottando politiche più dure o invasive di quanto gli elettori preferirebbero. È un paradosso democratico: la visibilità del problema riduce, invece di rafforzare, la rappresentanza.”

L’illusione del consenso sui “valence issues”

La ricerca si concentra su quelli che in scienza politica vengono chiamati valence issues, cioè questioni su cui esiste un consenso di fondo – come la sicurezza, la prosperità economica o l’efficienza amministrativa – e che non dividono l’elettorato lungo linee ideologiche. In questi casi, la competizione politica non riguarda “cosa fare”, ma “chi è più capace di farlo”.

Proprio qui nasce il corto circuito: quando la prevenzione del terrorismo, per esempio, diventa un importante metro di giudizio per valutare i governi, il calcolo elettorale spinge i leader ad adottare misure sempre più aggressive, anche oltre il punto che gli stessi cittadini considererebbero accettabile se potessero valutarne i costi in termini di libertà civili.

“Dopo attentati come l’11 settembre”, osserva Di Lonardo, “la pressione a mostrarsi competenti nell’affrontare la minaccia di nuovi attentati ha portato molti governi a varare leggi eccezionali, come il Patriot Act negli Stati Uniti, che hanno ampliato i poteri di sorveglianza e ridotto le garanzie civili. Ma la nostra analisi mostra che non è solo la paura a spiegare queste scelte: è anche la logica democratica del consenso, che premia chi appare più competente. A quel punto, adottare misure forti che portano ad un aumento della sicurezza, e quindi alla percezione di competenza agli occhi degli elettori, diventa ottimale per l’esecutivo, anche a scapito della coerenza con le preferenze degli elettori.”

Quando il voto diventa una delega in bianco

Nel modello elaborato dai due studiosi, gli elettori e i rappresentanti condividono gli stessi costi e benefici nel definire una politica di sicurezza: non ci sono differenze ideologiche né un diverso grado di informazione, ma solo un incentivo in più per i politici — la rielezione.

In un contesto di alta salienza, l’obiettivo di evitare anche solo la percezione di inefficacia diventa dominante. Così i governi, per ridurre il rischio politico di un nuovo attentato, scelgono livelli di restrizione e sorveglianza più alti di quanto sarebbe ottimale per gli stessi cittadini. Il risultato, scrivono Di Lonardo e Dragu, è un paradosso di rappresentanza: “l’aumento della salienza di un tema comporta una riduzione della congruenza tra le preferenze degli elettori e le politiche attuate”. “La democrazia funziona male proprio dove pensiamo che funzioni meglio”, commenta Di Lonardo. “Sulle questioni più visibili, il meccanismo elettorale spinge a decisioni simboliche, spesso iper-reattive, che non riflettono un vero mandato popolare.”

Dalla “War on Terror” al populismo securitario

Il caso del terrorismo è emblematico, ma non unico. L’analisi può essere estesa a molti altri ambiti in cui gli elettori giudicano i governi in base ai risultati percepiti, più che ai dettagli delle politiche: la lotta alla criminalità, la gestione delle migrazioni, le emergenze sanitarie o economiche. Quando il dibattito si concentra su un solo obiettivo – più sicurezza, meno criminalità, crescita a tutti i costi – la complessità sparisce. Gli elettori, osservano gli autori, tendono a basarsi su indicatori semplificati di “successo” e, nel tentativo di eleggere politici competenti, possono trascurare i costi delle loro scelte al governo.

Il rischio è che la politica, per apparire efficace, sacrifichi proprio quell’allineamento tra le scelte dei politici e le preferenze degli elettori che rappresenta il fondamento di legittimità delle democrazie liberali.

“Basti pensare”, aggiunge Di Lonardo, “a come le rivelazioni di Edward Snowden abbiano mostrato l’estensione di programmi di sorveglianza nati nel nome della sicurezza ma condotti nel segreto, o al caso di Barack Obama, che pur avendo criticato da candidato gli eccessi dell’‘antiterrorismo’, da presidente ha poi confermato gran parte di quelle misure. È l’effetto perverso della salienza: più i cittadini chiedono risultati visibili, più i governi si allontanano dalle loro vere preferenze.”

Un monito per le democrazie del XXI secolo

La conclusione dello studio è tutt’altro che accademica. L’idea che “più attenzione pubblica significa più democrazia” non regge alla prova dei fatti. Nei temi ad alta salienza, scrivono gli autori, “l’aumento dell’attenzione elettorale non migliora l’allineamento tra elettori e governanti, ma lo distorce”. Questo non significa che i cittadini debbano disinteressarsi della politica della sicurezza, ma che le istituzioni devono saper filtrare la pressione emotiva delle opinioni pubbliche e garantire controlli democratici anche quando la paura domina la scena.

Come conclude Di Lonardo: “Il nostro lavoro mostra che la rappresentanza è più fragile proprio nei momenti in cui la partecipazione emotiva è più forte. Per difendere la democrazia non basta votare: bisogna accettare che la buona politica non coincide sempre con quella che fa più rumore.”

 

Livio Di Lonardo, Tiberiu Dragu, “When salience undermines representation: democratic dilemmas in security and counterterrorism policy”, Political Science Research and Methods (2025), 1–9, DOI https://doi.org/10.1017/psrm.2025.10049

LIVIO DI LONARDO

Bocconi University
Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche