Millennials, fedeli al lavoro se impegnati per il pianeta
I millennials sono un mistero per molti datori di lavoro. I giovani adulti che entrano nel mondo del lavoro sono considerati pigri e pretenziosi e motivarli sembra più difficile che ammaestrare i gatti. Spesso le società hanno difficoltà a trovare gli incentivi appropriati, anche perché i ragazzi non rispondono bene alle ricompense finanziarie, come stipendi e bonus.
Molti giovani lavoratori, non solo in compiti ripetitivi (come la proverbiale catena di montaggio), ma anche in ben retribuiti impieghi da colletti bianchi in banche e studi legali o di consulenza, non riescono a comprendere l'impatto complessivo del loro lavoro. Per alcuni di questi lavoratori, motivazione e fedeltà aumentano quando hanno la possibilità di impegnarsi in attività sponsorizzate dalle imprese, che abbiano un impatto diretto e visibile sulla società, come aiutare a ridurre la povertà e la disuguaglianza o contribuire alla salvaguardia dell'ambiente.
Come facciamo a sapere che ai millennials interessa fare lavori ad impatto sociale come parte della loro carriera e quali vantaggi può trarre l'impresa consentendo loro questa opzione? In un recente progetto (con Jasjit Singh e Michelle Rogan come co-autori) ho studiato una società di consulenza che offre ai propri dipendenti la possibilità di allontanarsi dai progetti commerciali per alcuni mesi, e mettere le loro competenze di consulenza a disposizione di Ong o agenzie per lo sviluppo con un focus sull'impatto sociale. È importante sottolineare che questi progetti non sono pro bono, in quanto la società ritiene che un tale approccio non sarebbe né replicabile né sostenibile. Invece, i clienti sono invitati a pagare, anche se a tariffe inferiori a quelle commerciali, in modo da potersi permettere il servizio.
Un aspetto innovativo del modello è che anche i consulenti sono invitati ad accettare una riduzione di stipendio e a rinunciare ai consueti benefit (viaggi in business-class e hotel di lusso) per tutta la durata del progetto. I progetti durano in media da tre a sei mesi e comportano una riduzione di stipendio tra il 25% e il 50%. Tra il 2002 e il 2015, più di 1.000 dipendenti hanno lavorato al programma, accettando tagli salariali per un totale di decine di milioni di dollari. Il fatto che in particolare i lavoratori più giovani, vale a dire i millennials, siano disposti a fare un tale sacrificio finanziario è un buon indicatore di quanto apprezzino il programma.
Inoltre, abbiamo osservato che i consulenti che partecipano al programma hanno minori probabilità (fino al 32% in meno) di lasciare l'azienda rispetto ai non partecipanti. Emerge inoltre che la differenza è determinata dalle dimissioni volontarie e che i dipendenti trattenuti sono persone efficienti, che vale la pena di tenere. Questo è il motivo per cui questa opzione è positiva per l'azienda. Dato che il costo effettivo di sostituzione di un consulente può essere più del 200% del suo stipendio annuo, la società ha risparmiato milioni di costi di turnover in seguito all'introduzione di questa iniziativa. Questo non significa che obbligare i dipendenti al lavoro sociale aumenti la ritenzione. Si ottiene un beneficio, invece, quando si dà la possibilità di partecipare a dipendenti con un effettivo interesse all'impatto sociale, consentendo loro di intraprendere un percorso professionale integrato, che coniughi carriera aziendale e impegno sociale, invece di dover fare una scelta netta tra l'impiego presso l'impresa e quello in una Ong. Seguendo un modello simile, in questi ultimi anni, aziende tra cui Google, Ibm, Intel, John Deere, JP Morgan Chase, Mars, Medtronic, Merck, Novartis e Pwc hanno implementato iniziative sociali aziendali focalizzate sui dipendenti. Quanto più i millennials fanno carriera e cominciano a occupare posizioni di responsabilità, tanto più questi programmi sono destinati ad aumentare in numero e importanza. E per le imprese non è solo un modo per contribuire positivamente alla società, ma anche per motivare e mantenere il personale.