L'edilizia pigra non riesce e fare affari
Si susseguono notizie sempre più allarmanti sullo stato del settore delle costruzioni e dell'edilizia in Italia. È una preoccupazione più che giustificata: come evidenziato dall'Associazione nazionale costruttori edili (Ance), quello delle costruzioni è un settore che pesa per circa il 5% del pil nazionale e che attiva un indotto pari all'80% del fatturato diretto. Per ogni milione di euro di domanda diretta nelle costruzioni, si avviano quasi 1,8 milioni di euro di investimenti complessivi. D'altra parte, con la medesima frequenza si avvicendano critiche ai più o meno recenti governi, rei di avere dato scarsa rilevanza alle sorti di un settore così strategico per lo sviluppo economico nazionale.
Senza volere approfondire in questa sede le numerose e complesse cause dell'attuale stato dell'edilizia, è necessario ragionare su alcuni aspetti tanto banali quanto di fondamentale importanza, troppo spesso tralasciati. Una nuova costruzione, una ristrutturazione di un ufficio o di un edificio residenziale vengono realizzate quando servono e quando sono disponibili le risorse necessarie. In un'economia sana, l'evoluzione del settore edile dovrebbe seguire lo sviluppo della produzione nazionale, non esserne l'elemento scatenante, altrimenti il rischio è quello di ripercorrere i passi della crisi spagnola (tale ragionamento non vale per il settore delle infrastrutture e delle grandi opere). Gli immobili non sono infatti altro che spazi "to live, work and play" come giustamente sostenuto nei paesi anglosassoni; ma se le imprese riducono il proprio personale, la capacità di spesa dei cittadini ristagna e i giovani rimangono a vivere a casa dei propri genitori fino a ben oltre i 30 anni, per quale ragione dovrebbe esserci richiesta di nuovi uffici, centri commerciali o appartamenti? In un contesto come quello attuale, di ciclo negativo da ormai oltre 6 anni (e, ribadisco, senza volere in questa sede approfondire le cause che ci hanno portato a questa situazione), le leve del governo per influire sulle dinamiche di questo settore sono marginali. I cicli economici, più o meno prolungati, sono un dato ineluttabile. In un determinato momento storico convivono però cicli economici a livello internazionale profondamente diversi. Il prodotto interno lordo globale cresce a ritmi sostenuti anche in questi anni di severa recessione continentale e ci sarà quindi sempre domanda di nuove costruzioni da qualche parte nel mondo. In questo complesso contesto, qual è dunque il vero "peccato originale" delle nostre imprese di costruzione, caratterizzate peraltro da un know-how e da livelli qualitativi difficilmente reperibili e replicabili a livello mondiale? Un insieme concatenato di cause riassumibili nel termine pigrizia.
Gli attuali 1,5 milioni di occupati nel settore delle costruzioni, diminuiti di oltre 500.000 unità dal 2008, continuano ad operare in imprese afflitte da nanismo estremo. Basti pensare che quasi il 60% delle imprese di costruzioni è composta da un addetto, mentre un ulteriore 37% non va oltre i 9 dipendenti, a fronte dello 0,2% delle 'grandi' imprese con un personale superiore alle 50 unità.
Quando aggreghiamo questi dati con quelli relativi all'internazionalizzazione delle imprese edili, è possibile notare come chi ha scelto di operare oltre i confini nazionali abbia raggiunto tassi di crescita del fatturato quasi sempre a due cifre, anche in esercizi complessi come quelli post-2008. Ancora, da una recente indagine Ance, fatto 100 sia il livello del fatturato edile nazionale sia di quello estero nel 2004 delle imprese italiane, tale indicatore ristagna oggi a livelli lievemente sotto la soglia iniziale per il fatturato interno mentre, beneficiando di una costante crescita negli esercizi successivi, il fatturato estero ha superato 300 nel corso del 2013.
È quindi chiaro che, grazie alla già citata competitività e capacità, quando le imprese di costruzioni italiane pianificano un corretto processo di internazionalizzazione, gli esiti sono nella maggior parte fortunati. È anche evidente purtroppo che l'attuale struttura dimensionale di tali imprese consente solo ad una ristretta "elite" di imprese (quello 0,2% descritto in precedenza) di pensare ad un efficiente ed efficace processo di internazionalizzazione, lasciando il restante 99,8% a spartirsi una torta sempre più ridotta.