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Il voto all’estero è una cosa seria. E non per tutti

, di Davide Ripamonti, translated by Alex Foti
Gli elettori italiani all’estero sono oltre 4 milioni. Il loro voto può essere decisivo in molte consultazioni, soprattutto nei referendum, dove il criterio del voto depotenziato non può essere applicato. Ma è giusto che a votare siano anche persone il cui legame con l’Italia è pressoché nullo? Ne parla nell’intervista Davide Paris, costituzionalista e autore di Il diritto di voto preso sul serio

Nella maggior parte delle democrazie occidentali, fino a pochi decenni fa, emigrare significava perdere, di diritto o di fatto, la possibilità di partecipare alle elezioni del paese d’origine. Oggi non è più così. In molti paesi, infatti, Italia compresa, è evidente nel diritto comparato una tendenza a un sempre più ampio riconoscimento del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero. Vi è, in sostanza, la convinzione che tale riconoscimento corrisponda a una concezione più matura di democrazia e a una più piena realizzazione del principio di uguaglianza. Ma è davvero così e, soprattutto, i giuristi sono tutti concordi su questa visione? Un tema, quello della cittadinanza e del diritto di voto che porta con sé, tornato di recente alla ribalta con il decreto legge, cosiddetto decreto Tajani, di fine marzo. 
Ne parliamo in questa intervista con Davide Paris, professore associato di diritto costituzionale italiano ed europeo presso il Dipartimento di studi giuridici dell’Università Bocconi e autore del libro Il diritto di voto preso sul serio-La partecipazione dei cittadini residenti all'estero alle elezioni politiche (Bocconi University Press).

Il voto a tutti. Non importa quale sia il legame di chi vive all’estero con il proprio paese d’origine. Questa sarebbe la più alta testimonianza di democrazia e liberalità. Lei però non è d’accordo…

Il voto segue la cittadinanza. Abbiamo persone che vivono in Italia da anni, lavorano qui, pagano le tasse qui ma non possono votare perché privi di cittadinanza. Io parto da una considerazione: per me democrazia è autogoverno del popolo, il problema sorge quando si inserisce fra chi governa persone che di fatto non saranno governate. Alcuni sostengono che escludere propri cittadini all’estero dal diritto di voto sia cosa paragonabile all’esclusione delle donne o delle persone di colore che avvenivano in passato. Io non mi trovo d’accordo, penso che alcune limitazioni siano non solo legittime ma anche necessarie se vogliamo che il voto sia una cosa seria. Il problema semmai sono i criteri.

I cittadini italiani residenti all’estero sono un mix di storie e di realtà molto eterogeneo. Come trovare un criterio il più oggettivo possibile?

Facciamo un esempio: lo studente della Bocconi che va per un periodo della sua vita all’estero a studiare, per esempio, in Francia, con la prospettiva a breve-medio termine di rientrare. Non possiamo certo togliergli il diritto di votare, che per altro non potrà esercitare nemmeno in Francia perché non è cittadino francese. E’ cosa ben diversa da chi conserva la cittadinanza italiana perché ha una goccia di sangue italiano ma non ha più alcun legame con l’Italia. A questo punto la cittadinanza diventa un fatto meramente formale. Secondo me bisogna porre delle limitazioni a questa seconda categoria di persone, senza penalizzare gli altri, e il criterio dirimente è che per continuare a esercitare il diritto di voto occorra avere un ragionevole legame con il paese. Ovviamente bisogna stabilire quale sia il ragionevole legame.

Diamo un’occhiata a quanto avviene in altri paesi, magari a quelli più vicini a noi per tradizioni e altro. Per esempio in Europa occidentale.

Certamente. Prendiamo la Spagna. Qui vige il sistema dell’uguaglianza piena, il voto cioè è riconosciuto a tutti coloro che abbiano la cittadinanza spagnola senza alcuna distinzione. Si determina quindi quel problema di over inclusion da cui siamo partiti. Nel Regno Unito (e anche altrove), invece, per molti anni si è applicato questo criterio: il diritto di voto di chi vive all’estero si perde dopo un certo numero di anni. Il principio è che, più aumentano gli anni di lontananza dal paese, più si assottiglia il legame con esso. A mio avviso questo criterio, pur non perfetto, va nella direzione giusta ed è migliore di altri (per esempio possedere dei beni nel paese d’origine) che possono essere discriminatori. Il rovescio della medaglia è che avremo persone che hanno perso il diritto di voto nel paese d’origine e che, non avendo la cittadinanza in quello in cui risiedono, non votano da nessuna parte. 

In Italia facciamo qualcosa di simile alla Spagna, ma con alcune importanti differenze. Ci spiega meglio come funziona attualmente?

Premettiamo a questo proposito che il numero di italiani votanti all’estero è enorme, circa un decimo del corpo elettorale complessivo, con un’alta capacità di incidere. Quindi diamo sì il voto a tutti, come fanno gli spagnoli, ma concediamo a chi risiede all’estero un voto depotenziato. Nella circoscrizione estero quanti elettori ci sono? Quanti parlamentari spetterebbero se applicassimo gli stessi criteri che applichiamo in Italia? Allora gliene diamo un numero inferiore. E questo determina un problema, perché abbiamo dato troppo ad alcuni (il discendente di un immigrato in Australia un secolo fa, per esempio) che non hanno alcun legame con l’Italia, e poco ad altri, per esempio lo studente che si trova a fare il dottorato all’estero. In base agli ultimi dati, relativi alle elezioni politiche del 2022, 1 deputato eletto in Italia ha rappresentato circa 117 mila elettori, uno eletto all’estero quasi 600 mila. Quindi il voto all’estero vale circa un quinto di quello in Italia. 

Però il dato curioso, direi quasi paradossale, è in realtà un altro…

La circoscrizione estero non è un’unica realtà. E’ stata suddivisa in quattro ripartizioni: Europa; America Meridionale; America Settentrionale e Centrale; Asia, Africa, Oceania e Antartide. A seguito della riforma del taglio dei parlamentari del 2020, in ognuna di queste ripartizioni è possibile eleggere un solo senatore, ma queste ripartizioni non hanno lo stesso numero di elettori: sono moltissimi in Europa, molti in Sudamerica, meno in Nordamerica e ancora meno nella quarta ripartizione. Quindi gli elettori di quest’ultima hanno molto più peso dei primi. In pratica, se guardiamo i numeri sempre relativi al 2022, si avrà che il voto di un lontano discendente di un immigrato italiano che vive a Sydney, per esempio, vale quanto quello di 10 studenti di dottorato momentaneamente a Ginevra. Pare normale?

Ai cittadini all’estero, agli italiani in particolare, interessa votare?

Ovviamente la partecipazione al voto di chi vive all’estero è dovunque statisticamente più bassa di quella di chi vive nel paese. Ed è anche comprensibile che sia così. In tutto questo, però, l’Italia non va affatto male. Sempre considerando le Politiche del 2022, hanno votato circa il 25% dei cittadini italiani residenti all’estero (oltre 1 milione di persone sui circa 4 aventi diritto), contro il 63% di chi abita in Italia. Pochi? Tanti? In Germania (paese che non ha, contrariamente a noi, un elenco dei propri cittadini all’estero) si stima che siano circa 3 milioni i residenti all’estero, di questi alle elezioni del 2021 hanno votato solo in 120 mila.

Gli italiani all’estero dimostrano di tenere abbastanza al proprio diritto di voto e quindi, di conseguenza, alle proprie origini. Ma è sufficiente per continuare a mantenerlo questo diritto? Lei non mi sembra così d’accordo…

Il diritto di voto si deve dare non in base a quanto uno ci tenga, ma in base al legame che una persona ha con il paese e al fatto che il destino di quel paese influisca anche sul destino individuale di quella persona. Dobbiamo trovare un criterio unitario che stabilisca quale sia un legame ragionevole con il paese, perché la cittadinanza da sola non basta. Di sicuro, a mio avviso, la soluzione adottata con la riforma del 2001 ha sì migliorato le cose (fino agli anni 90 chi voleva votare doveva rientrare in Italia, e quindi di fatto non votava nessuno) introducendo il voto per posta, ma la soluzione del voto depotenziato secondo me non sta in piedi.

Una strada però va trovata, anche nell’ottica del premierato che l’attuale maggioranza vuole introdurre. In questo caso, come già nei referendum, ogni voto ha lo stesso peso e quelli dei cittadini all’estero rischiano di avere un’incidenza più alta (troppo alta?). 

Soprattutto per i referendum costituzionali, per i quali non esiste il quorum, il problema è importante. Ricordo che in occasione della riforma costituzionale di Matteo Renzi, la ministra Maria Elena Boschi per la maggioranza e Luca Zaia per il centrodestra fecero delle vere e proprie tournée in Sudamerica in cerca di voti poche settimane prima del referendum costituzionale del 2016, fatto abbastanza singolare. Del resto il voto per i referendum torna a essere un voto pieno e qui, di nuovo, bisogna porsi il quesito se sia giusto che il futuro costituzionale di un paese dipenda anche da un corpo elettorale così variegato o se non sia il caso di operare una qualche distinzione.  

Il tema è tornato di recente attualità con il decreto Tajani, che pone limiti più stringenti per l’ottenimento della cittadinanza di chi risiede all’estero. Lei che cosa ne pensa?

Dei limiti, come ho spiegato prima, vanno messi e il decreto va in quella direzione. Ma ci sono dei problemi, anche costituzionali. Per esempio la questione del periodo transitorio per il passaggio dalla vecchia alla nuova normativa, che molti ritengono necessario. Si è calcolato che ci siano nel mondo circa 60 milioni di persone che potrebbero, con la normativa vigente prima del decreto Tajani, chiedere la cittadinanza italiana e che non l’hanno ancora fatto perché non interessati, ma a questo punto, visto che in seguito non avrebbero più i requisiti, potrebbero decidersi a farlo. Ci immaginiamo la mole di lavoro che intaserebbe i nostri consolati, gli uffici dell’anagrafe e i tribunali? Senza ovviamente dimenticare la questione del voto.