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I manager, tra cio' che e' giusto e cio' che e' utile

, di Antonio Catalani - docente di creativity and management
Negli ultimi anni molto si parla di etica e business. E da quanto se ne parla e' facile capire che forse c'e' proprio bisogno di affrontare il problema

Stavo rileggendo La Repubblica di Platone quando ho trovato questa frase che mi ha colpito per la sua cruda attualità: "ciò che è giusto altro non è che l'utile del più forte" dice Trasimacco a Socrate e sembra parlino del mondo di oggi, ma evidentemente il problema non è di oggi.

Chi sceglie di agire preferendo ciò che è giusto, secondo il sofista, perde sempre: negli affari come in ogni altro campo. Perdono anche coloro che commettono ingiustizie minori poiché vengono puniti e subiscono il disprezzo sociale. L'ingiusto però, per farla franca, deve essere nel pieno del potere, altrimenti ciò che ha fatto per perseguire il proprio vantaggio viene aspramente condannato. Secondo Trasimacco quindi perseguire l'utile comporta l'essere ingiusti, e l'ingiustizia non è condannata se è perpetrata da chi ha il potere.

Oggi Socrate farebbe a dir poco la figura dell'ingenuo, malamente sconfitto dalla cronaca quotidiana, ma davvero non c'è alternativa alla visione cinica di Trasimacco?

Nelle nostre scelte e nei comportamenti conta di più la coerenza con ciò che riteniamo giusto oppure ci valutiamo prevalentemente attraverso risultati misurabili? e ancora: come li misureremo? Posso valutare la qualità delle mie scelte sulla base di utilità quantificabili, per esempio i risultati di bilancio; ma questo mi autorizza a prescindere da ogni altra valutazione, oppure il modo attraverso il quale ho conseguito il risultato è almeno altrettanto importante?

Sono davvero rare le circostanze in cui giusto e utile coincidono, quindi il dilemma non è questione da poco e, pure se con implicazioni diverse, attiene alla maggior parte delle nostre scelte quotidiane. Spesso, in particolare in alcuni ambiti, si proclama di fare ciò che è giusto ma si opera per realizzare solo l'utile (politica docet) e bisogna saper distinguere. Evidentemente è insensato immaginare l'uno senza l'altro, ma, come al solito, è questione di equilibrio: se uno dei due prevale si va dal bieco cinismo allo sciocco ed inutile idealismo.
Utile vs Giusto

Prima di tutto dobbiamo definire i due corni del dilemma (del potere parleremo un'altra volta): utile è, nel nostro caso, ciò che serve alla vita ed alla felicità, contrapposto alle finalità morali. In pratica tutto ciò che ci mette in una posizione di vantaggio oppure genera guadagno. Per conseguenza giusto è l'agire che è guidato non dall'interesse, ma dal dovere morale. Un secondo aspetto del problema è stabilire come si può valutare ciò che facciamo: attraverso il risultato che si consegue, che quindi deve essere misurabile, oppure per l'intenzione che ci guida ed il modo con cui si è agito?

Negli ultimi anni molto si parla di etica e business (ancora una volta probabilmente è una conseguenza di mode lanciate dalla cultura americana), ma se ne parla anche perché i comportamenti, in tutti gli ambiti, hanno mostrato un deciso orientamento al vantaggio personale o aziendale, a discapito del bene comune. E quindi giù tutti a parlare di business ethics, CSR, business sostenibile, stakeolders, e così via; insomma da quanto se ne parla è facile capire che forse c'è proprio bisogno di affrontare questo problema.

L'etica, che deve essere tenuta distinta dalla politica e dal diritto, si occupa delle azioni buone o cattive, non di quelle proibite. Insomma non si occupa della legge, ma dell'idea di ciò che è bene. Ho invece l'impressione che si creda che tutto si risolva attraverso normative stringenti, autorità delegate, supercontrollori, sistemi di monitoraggio sempre più complessi ed articolati. Non nego certo che queste possano aiutare, ma temo che il problema non si possa risolvere così.

È semplice capire il perché: l'etica è filosofia; il vantaggio personale: soldi, carriera, visibilità, apprezzamento, sono invece fonte di piacere immediato. La scelta è facile.

Non voglio essere troppo cinico, ma ho l'impressione che messa in termini normativi la questione etica diventi come una partita di calcio. Se l'arbitro non mi scopre nessuno mi chiederà conto. Certo adesso con la televisione in campo diventa più difficile nascondere lo sgambetto all'avversario, ma insomma vale la pena provarci. Non educheremo certamente i calciatori al comportamento morale solo con punizioni di qualsiasi natura e con i codici etici (servono, certo, ma non bastano): dobbiamo intervenire sull'idea di sport e sul modello sociale. Se non lo facciamo presto in campo ci saranno più arbitri che giocatori e non solo non avremo risolto nulla, ma perderemo anche il gusto della partita!
Che fine ha fatto la nostra cultura?

L'origine del problema secondo me va ricercata nel nostro modello di società. Non sono certo il primo a notare che c'è qualcosa di sbagliato: la virtù più apprezzata, oggi, sembra coincidere con il conseguimento del benessere materiale. Il sintomo più vistoso della degenerazione è certamente la crescente disuguaglianza sociale, che affligge particolarmente le società avanzate, come sottolinea tra gli altri T. Judt.
Il rapporto tra ciò che riteniamo giusto e ciò che crediamo sia utile segue pulsioni dominate dal condizionamento operante, teoria complementare al condizionamento pavloviano, introdotta da Skinner, che lega il comportamento al piacere o all'utilità (da cui poi in realtà deriva spesso il piacere).
Vi sono tuttavia almeno altri tre fattori che non poco concorrono.

Tutto oggi è guidato da un approccio orientato al breve periodo. C'è fretta in qualsiasi cosa, siamo nel frenetico mondo dell'usa e getta. Siamo bulimici: nulla vale quando si è conseguito, ed avanti verso un altro obiettivo. Non riusciamo più a passeggiare, siamo tutti runner, e non è nemmeno detto che ci faccia bene alla salute, imbottiti come siamo di integratori, tranquillanti, ed altro ancora.
La priorità è l'apparire. I proclami valgono quanto le cose fatte. Twittare qualcosa è come averla fatta. Ciò che gli altri pensano di noi è la bussola delle nostre scelte e noi, d'accordo con Z. Bauman, non siamo più la nostra storia, la famiglia ed il luogo da cui proveniamo, la nostra educazione, ma siamo prevalentemente ciò che indossiamo, la nostra automobile, dove an-diamo per il week end e così via. Insomma privilegiamo ciò che è materiale per definire la nostra identità sociale.
Il mito poco fecondo della così detta scelta razionale condiziona in maniera pervasiva il modo di pensare comune. È il residuo tossico dell'illusione del secolo scorso di trovare la ragione delle cose del mondo e delle leggi che lo governano. Non possiamo ridurre tutto a ciò che è misurabile.

Abbiamo perso i punti di riferimento che hanno caratterizzato la nascita della società moderna: il valore della collettività e dei singoli individui, rispetto alle istituzioni; la fiducia reciproca rispetto alla paura sociale; il bene comune rispetto allo straripare della ricchezza nelle tasche di pochi.
Ai miei "venticinque lettori" potrà sembrare che sia sempre stato così. Ma non è vero! Conoscete certamente Giuseppe Toniolo, Gino Zappa, o un altro tra i tanti illustri economisti di matrice italiana.
Sono certo che a qualcuno di voi verrà voglia di chiedersi: che fine ha fatto la nostra cultura?