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Economia poco competitiva, commercio dannoso

, di Fabio Todesco
Un paper di Epifani e Gancia individua il ruolo della dispersione dei margini prezzo-costo nella determinazione degli effetti di benessere del commercio estero. Che ha bisogno di liberalizzazioni e politiche industriali adeguate

Se non sono accompagnate da un'effettiva liberalizzazione le politiche di apertura commerciale possono rivelarsi dannose per il benessere nazionale. Tali politiche si traducono normalmente in un abbassamento dei margini prezzo-costo per le industrie interessate dall'apertura commerciale e in un conseguente aumento della dispersione dei margini tra le diverse industrie. Paolo Epifani (Bocconi) e Gino Gancia (Pompeu Fabra, Barcellona), nel paper Trade, markup heterogeneity and misallocations (Cepr discussion paper series, no. 7217), utilizzano i margini prezzo-costo quale misura del potere monopolistico delle varie industrie e mostrano che, sotto certe condizioni, il benessere collettivo non dipende dal livello medio di tale potere, ma dalla sua dispersione.

Quando il margine è lo stesso per ogni industria si ha un'allocazione ottima delle risorse, ma quanto più ci si allontana da questa condizione ideale, tanto più si fa subottimale l'allocazione, con le industrie a margine più basso oggetto di investimenti troppo alti e protagoniste di una produzione eccessiva e quelle a margine più alto oggetto di investimenti troppo bassi e artefici di una produzione insufficiente.

L'analisi dei dati riguardanti gli Stati Uniti conferma il nesso tra apertura commerciale e livello dei margini: a una maggiore apertura corrispondono margini più bassi. Un'industria chiusa al commercio internazionale come quella dei servizi alle imprese registra un margine del 33% rispetto al 13% dei prodotti manifatturieri. La produzione di macchinari industriali (aperta alla concorrenza straniera) registra margini del 9,5%, ma il loro affitto arriva al 41,5%. Le serie storiche dimostrano, inoltre, che la dispersione dei margini è aumentata nel corso del tempo e le asimmetrie nell'esposizione al commercio estero sembrano esserne una delle cause.

Epifani e Gancia costruiscono un modello di concorrenza imperfetta, con industrie eterogenee sia per struttura dei costi sia per condizioni della domanda e, comparando l'equilibrio di mercato con quello che imporrebbe un "dittatore benevolente", identificano l'inefficiente allocazione dovuta alla distribuzione disomogenea dei margini.

Nel caso di elevate barriere all'entrata e all'uscita delle imprese da un'industria, l'omogeneità dei margini è condizione sufficiente per raggiungere la distribuzione ottimale delle risorse. In questo caso, l'apertura al commercio internazionale, modificando la struttura dei margini, può avere effetti negativi sul benessere generale.

Nel caso invece di libera entrata, l'omogeneità dei margini è condizione necessaria, ma non più sufficiente, a raggiungere un'allocazione ottimale e le politiche della concorrenza dovrebbero essere integrate da altri interventi di politica industriale se si volesse replicare l'allocazione ottima delle risorse. In compenso, una certa disomogeneità dei margini, in queste condizioni, può persino migliorare il benessere generale e diventa improbabile che un'apertura, anche selettiva, al commercio internazionale risulti dannosa.

Le conclusioni del paper gettano nuova luce sui rischi di apertura al commercio internazionale delle economie dei paesi emergenti. Le teorie maggiormente discusse affermano che il rischio deriverebbe dalla debolezza della giovane industria locale, che potrebbe essere schiacciata dai concorrenti stranieri più consolidati ed efficienti prima di raggiungere lo stesso stadio di evoluzione. Epifani e Gancia affermano, invece, che il rischio deriverebbe dalle elevate barriere all'entrata che caratterizzano i mercati dei paesi emergenti, in cui l'impossibilità di passaggio degli operatori da un'industria all'altra impedirebbe di correggere il danno provocato dalla modifica dei margini.