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Compliance non significa efficienza

, di Alessandro Minichilli - professore associato presso il Dipartimento di management e tecnologia
Il codice di autodisciplina di Borsa italiana è applicato con diligenza, ma è ora di guardare di più alla sostanza

Cosa sappiamo del governo delle nostre imprese, a oltre un decennio dall'applicazione delle best practice contenute nel codice di autodisciplina di Borsa italiana? Se ci si riferisse al suo naturale ambito di applicazione, quello delle società quotate, la risposta sarebbe probabilmente: sappiamo tutto. Da anni la maggioranza delle società quotate presso la Borsa italiana, come quelle di tutti i paesi industrializzati, produce report su caratteristiche e regole di composizione e funzionamento delle assemblee societarie, del cda, dei comitati presenti al suo interno. Dal canto loro, gli uffici legali e societari delle quotate, così come le segreterie dei cda, hanno sviluppato sofisticate competenze in materia, interpretando in modo diligente le richieste provenienti dai regolatori e dalle associazioni (Consob, Borsa italiana, Assonime etc.). Peraltro, anche i consiglieri stessi, soprattutto se indipendenti, sembrano essere stati spesso nominati più per le loro competenze in materia regolamentare e di conformità alle norme (compliance) che non per le competenze di business. Ciò ha portato, negli ultimi anni, a una revisione della composizione e struttura dei nostri board modellata sulle richieste del codice. Come si evince dai dati del rapporto Assonime 2013 sulla corporate governance, nel 70% dei casi gli amministratori delle società quotate sono non esecutivi, di cui oltre la metà indipendenti, con un peso crescente delle donne per via della progressiva applicazione della legge 120/2011 sulla rappresentanza di genere. Allo stesso modo, appare ridotto il numero di casi di sovrapposizione tra presidente e amministratore delegato (Ceo duality, appena il 30% dei casi), mentre quasi 9 aziende quotate su 10 hanno costituito all'interno del cda sia un comitato per il controllo interno e rischi, sia un comitato per le remunerazioni. L'impressione, tuttavia, è che se da un lato il cambiamento di pelle dei cda delle nostre quotate è sotto gli occhi di tutti, dall'altro permangono almeno due grandi interrogativi. In primo luogo, quanto di questo virtuosismo nei numeri si riflette in comportamenti reali effettivamente diversi? In altri termini, qual è il peso della compliance rispetto alla sostanza delle problematiche di governance delle nostre società quotate? Inoltre, quanta parte di questo decennale dibattito sulla governance ha riguardato anche le imprese private?

In merito al primo interrogativo, purtroppo, la distinzione tra un buon modello di governo societario e un modello di governo societario conforme alle richieste del codice risulta spesso molto ardua, e peraltro possibile solo attraverso l'analisi di aspetti soft di cui le imprese raramente danno conto. Questi aspetti, che riguardano la qualità del board e non le statistiche di presenza dell'uno o dell'altro tipo di consigliere, rappresentano gli elementi su cui le imprese più orientate alla compliance dovranno riflettere in futuro. Tra questi, per esempio, la tensione verso un'effettiva indipendenza e competenza del cda; la ricerca di un fit ottimale tra la composizione del cda e le esigenze strategiche dell'azienda o del gruppo; la ricerca di una dialettica costruttiva con l'azionista di riferimento, preservando una forte autonomia decisionale.Su quanto questi dieci anni di dibattito abbiano migliorato il governo delle imprese private, poi, sappiamo che c'è ancora molto da fare. Nonostante la pressione della crisi abbia costretto le nostre imprese a riflettere sull'apertura del capitale a terzi, sulla ricerca di nuove competenze per arrivare ai mercati emergenti e sulla necessità di dotarsi di una struttura manageriale per essere competitivi in settori ormai globali, manca la consapevolezza di come una buona governance possa rappresentare la migliore garanzia per affrontare con successo queste delicate transizioni. Manca quella transizione culturale che consenta ai nostri imprenditori di guardare con distacco competente alle proprie imprese, da azionisti, favorendone la crescita, l'internazionalizzazione, la professionalizzazione al vertice, e se possibile anche la quotazione. Perché piccolo, purtroppo, non è più bello come prima.