Contatti

Un progetto di ricerca internazionale coinvolge l’Istituto di Storia Economica L’indagine italiana

, di Andrea Colli e Franco Amatori
L’indagine italiana

La partecipazione al progetto di ricerca internazionale, tuttora in corso, sul tema delle performance permette di studiare l'evoluzione del capitalismo italiano nel corso del Novecento, indagando da vicino la relazione fra performance e variabili quali dimensione, strategia e struttura delle principali aziende italiane, e attuando anche un confronto internazionale fra l'esperienza italiana e quella di altri sette paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Svezia).

Si è scelto di esaminare l'evoluzione delle grandi imprese europee partendo dall'analisi della performance, definita sia in termini quantitativi sia qualitativi. In primo luogo, la raccolta di una serie di indicatori economici "classici" quali capitale sociale, fatturato, total assets, indebitamento, ha consentito di definire il legame esistente fra le aziende, mercato e azionisti. L'adozione di un approccio "istituzionale" ha poi permesso di arricchire il quadro così ottenuto, introducendovi variabili quali la struttura delle imprese, gli assetti proprietari e la competitività del settore.
La costruzione del campione di imprese italiane è stata condotta seguendo i criteri stabiliti all'interno del gruppo di ricerca internazionale. Si sono scelti cinque benchmark che rappresentassero l'intero ventesimo secolo, e per ciascuno di essi si sono costruiti due campioni di imprese. Per i primi tre benchmark (1913, 1927 e 1954) il criterio di selezione è stato il total assets, mentre per il 1972 e il 2000 ci si è basati sul fatturato. La creazione di due campioni distinti rispondeva all'esigenza di raccogliere informazioni sia sulle principali imprese italiane, senza ulteriori distinzioni, sia sulle principali imprese per settore di attività. Il primo campione racchiude le principali 12 imprese non finanziarie e le prime tre finanziarie per ogni benchmark, mentre il secondo è composto dalle prime due imprese di ogni settore.

Come si è detto, la performance è stata considerata sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo. Per quanto concerne il primo aspetto, i criteri di misurazione, stabiliti d'accordo con il gruppo di ricerca internazionale, sono stati il ROE (return on equity) e l'HR (holding return). Mentre il ROE esprime la frazione percentuale del profitto netto rispetto al capitale proprio, l'HR misura il valore di mercato di un'azienda ed è espresso dalla percentuale del guadagno che un ipotetico investitore ricaverebbe conservando un'azione per un anno. Tuttavia, la debolezza del mercato azionario e il soverchiante ruolo degli intermediari finanziari nell'allocazione delle risorse e nella governance aziendale caratteristici dell'Italia, hanno indotto ad aggiungere un ulteriore indicatore della performance per tenere conto della specificità italiana. La misurazione quantitativa della performance è composta quindi anche dal livello di indebitamento, definito come la frazione percentuale dei debiti totali rispetto al capitale proprio.

L'aspetto più innovativo e più complesso della ricerca è però rappresentato dal tentativo di definire qualitativamente la performance delle grandi imprese dei paesi coinvolti nella ricerca. Tale obiettivo è stato raggiunto compilando un questionario composto da dodici sezioni inerenti aspetti quali governance e assetti proprietari, strategia e struttura, forza lavoro, mercato di riferimento, ricerca e sviluppo, lobbying ecc. Data la difficoltà di reperire informazioni su una simile gamma di aspetti, si è deciso di limitare l'analisi qualitativa alla performance delle aziende delle "Top 15" di ciascun benchmark. Benché la lacunosità delle fonti non abbia consentito di completare interamente tutti i questionari, lo sforzo di raccogliere notizie cosi varie sulle principali imprese italiane si è dimostrato davvero interessante. È emerso, infatti, che era impossibile far rientrare molte delle aziende del nostro campione nello schema ideato pensando alle caratteristiche generali del capitalismo europeo. In altre parole, il questionario ha fatto emergere la persistenza di forti specificità nazionali, gettando forti dubbi sulla presunta convergenza verso un unico modello dominante di capitalismo durante tutto il corso del Novecento.

Le specificità del capitalismo italiano sono apparse in modo particolarmente forte trattando della questione della strategia e della struttura delle grandi imprese italiane. Mentre il questionario, in accordo con una larga parte della letteratura in materia, considera la multidivisionale come lo strumento più adatto a gestire la diversificazione correlata: in Italia essa si diffonde solo nell'ultimo benchmark, cioè molto più tardi che negli altri paesi europei. Questo però non significa che le grandi imprese italiane non fossero diversificate, ma solo che tale strategia era perseguita mediante una struttura aziendale molto particolare, quella del "gruppo polisettoriale", di cui la Edison degli anni fra le due guerre offre un chiarissimo esempio.
L'analisi quantitativa e qualitativa delle performance delle grandi imprese italiane ha permesso di approfondire le caratteristiche dello sviluppo industriale nel nostro Paese. La centralità dello Stato nel capitalismo italiano ha trovato conferma nella ricerca in questione. Ancora prima della costituzione dell'IRI (1933) e della comparsa dello Stato-Imprenditore, nel campione delle top-15 vi è un rilevante numero di aziende per le quali lo Stato ha rappresentato un sostegno fondamentale, soprattutto per quelle dei settori a maggiore intensità di capitale, come il complesso siderurgico di Terni, presente nelle top 15 ininterrottamente dal 1913 al 1954.
I nostri dati confermano il peso dello Stato negli anni del secondo dopoguerra: nel 1954 circa il 60% delle imprese delle top-15 appartengono al sistema pubblico. Nel 1972, oltre alle numerose aziende pubbliche, fra le imprese delle top-15 aumenta il peso di quelle familiari (passate dal 13 al 26% fra il 1954 e il 1972). In entrambi i benchmark non si sono riscontrate differenze apprezzabili in termini di performance fra quelle pubbliche e quelle private. Il quadro cambia invece nel 2000, per effetto delle privatizzazioni iniziate negli anni '90. Il risultato è una situazione fluida, in cui le imprese familiari mantengono una posizione di primo piano ai vertici del capitalismo italiano, mentre, se si riduce progressivamente il numero delle aziende pubbliche, non è ancora possibile distinguere gli effetti della diffusione di altre forme di corporate governance fra le grandi imprese italiane.

Molti sono gli interrogativi aperti dalla ricerca sulle performance e verso i quali occorre indirizzare le indagini future. Particolarmente urgente appare la necessità di chiarire il rapporto esistente fra le performance al livello "micro" (vale a dire a livello aziendale o settoriale) e quelle a livello "macro" (a livello nazionale o di sistema-paese).
Naturalmente, se l'analisi dei dati di bilancio può fornire un osservatorio interessante nel primo caso, nel secondo caso è richiesta la raccolta e il confronto di una varietà molto maggiore di fonti. E molto resta ancora da fare anche sul piano della comparazione internazionale.
I risultati preliminari di cui si dispone attualmente mostrano che le grandi imprese italiane hanno registrato livelli di ROE nettamente inferiori rispetto alle controparti straniere. Resta allora da capire com'è è stato possibile per l'Italia accedere al ristretto "club" dei paesi industrializzati nonostante la scarsa performance delle sue grandi imprese. Stupisce anche che le aziende di un "late-mover" come l'Italia abbiano registrato livelli di redditività più basse rispetto ai "first mover" come la Gran Bretagna per tutto il secolo scorso.