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Un colpo decisivo alla diplomazia multilaterale

, di Giorgio Sacerdoti
Copenhagen. La lotta al cambiamento climatico non è l’unica vittima del fallimento del vertice

Sicuramente deludente. Questo il giudizio che si può dare dell'esito della Conferenza mondiale di Copenhagen dello scorso dicembre sui cambiamenti climatici. Il proposito iniziale era quello di ottenere che le maggiori economie, sia sviluppate che emergenti (dagli Usa alla Cina e all'India) le quali non avevano aderito al protocollo di Kyoto del 1997 in scadenza nel 2012, diventassero parti anch'esse di un nuovo accordo vincolante. Questo avrebbe dovuto contenere impegni condivisi su un calendario di riduzione delle emissioni di CO2, debitamente quantificate, tali da far salvo il tetto dei 2 gradi di aumento massimo della temperatura nei prossimi decenni.

Si sa come è andata a finire. La tenace opposizione della Cina ha portato a un testo blando, di natura soprattutto politica, in cui gli impegni di riduzione delle emissioni, da indicare nelle settimane e mesi successivi, saranno puramente volontari. In questo contesto non si comprende quanta sostanza potranno avere le consultazioni e verifiche internazionali che pure sono state previste al riguardo, posto che i criteri di verifica, ancora da definire, "dovranno rispettare la sovranità nazionale". Alcuni hanno parlato di fallimento. Altri, meno pessimisti, leggono il "patto di Copenhagen", come un primo importante passo politico per riassorbire la frattura di Kyoto. Il presidente Obama potrà così ottenere, si spera, l'approvazione del Congresso Usa a misure di riduzione dei gas serra invise all'industria specie in tempo di crisi, avviando un percorso virtuoso che dovrà nei fatti portare a "tingere di verde" l'economia di tutti i paesi. Molti sforzi saranno ancora necessari ed è fondamentale che i paesi che si sono già unilateralmente impegnati sulle cifre (come l'Unione europea con il 20% di riduzione entro il 2020) non mollino la presa nonostante l'assenza di reciprocità. Lo svolgimento della Conferenza pone ulteriori interrogativi di metodo e di sostanza su come sia possibile governare le questioni di interesse globale in un mondo multipolare (ma è tale davvero, o ci avviamo ad una nuova diarchia Cina-Usa?) in cui l'assenza delle vecchie leadership ripropongono un quadro anarchico. Concordare su regole e istituzioni è sempre più difficile, l'Onu sembra servire solo per discorsi e dichiarazioni di buone intenzioni. Il G-20 ha portato nella recente crisi a linee di politiche economiche che rischiano però di rimanere consensi di facciata se quello che segue sono iniziative a livello nazionale non coordinate, come è da temere avvenga quanto alla disciplina dei mercati finanziari. Il cambiamento climatico non è l'unico contesto dove emergono le difficoltà di sviluppare accordi veri, che non siano al ribasso, su tematiche che riguardano tutti. Si pensi al commercio internazionale, al controllo della proliferazione nucleare, alla lotta al terrorismo. Il ritorno alla diplomazia bilaterale o tra gruppi ristretti, come tra Usa da un lato e i maggiori emergenti dall'altro a Copenhagen, taglia fuori l'opzione multilaterale e partecipativa, così come i paesi poveri che costituiscono la maggior parte dei 193 membri dell'Onu. Quello che più deve preoccupare noi europei è che anche l'Unione europea e suoi membri ne fanno le spese. Il modello di una Unione fondata su principi condivisi, regole uniformi e istituzioni comuni che lavorano in stretta cooperazione coi paesi membri non fa breccia come modello fuori dai nostri confini. La nostra diplomazia soft, basata sull'assistenza economica, non ha valso un posto agli europei nel decisivo negoziato finale di Copenhagen. Che ciò sia avvenuto appena due settimane dopo il varo della nuova struttura di Lisbona deve farci riflettere.