Un appello per mantenere l'appello
Per quanto raffinate siano le regole del processo e per quanta attenzione sia dedicata all'accertamento, la sentenza può essere sbagliata. Anzi. È proprio dalla coscienza della fallibilità del decidere che nasce la consapevolezza della necessità di prevedere un sistema che riduca al minimo il rischio di errore.
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Massimo Ceresa-Gastaldo |
Su un punto bisognerebbe essere tutti d'accordo. Per aumentare l'affidabilità del giudizio occorre agire su due fronti. Da un lato, arginare la componente irrazionale e soggettiva del decidere, adottando congegni di acquisizione della conoscenza sicuri. Dall'altro, consentire il controllo del risultato, attraverso l'analisi critica (o la ripetizione) del primo giudizio, articolando il processo per gradi. Un valido metodo di ricerca non garantisce l'esattezza del risultato, perché nulla assicura che quel protocollo venga correttamente seguito. Occorre poter sottoporre il risultato a un altro esperimento.
Questo spiega perché l'appello mantenga anche oggi, pur essendosi fatti molti passi avanti nella qualità delle regole di accertamento, la sua funzione di garanzia. Una funzione che non è affatto inconciliabile con i principi del sistema accusatorio. Piuttosto, a dover essere oggi rimeditata, in una concezione moderna e laica del processo, è proprio la convinzione che il dibattimento possa condurre a risultati indiscutibili. Oggi l'idea stessa di una pronuncia inappellabile dovrebbe essere ripudiata, senza per questo dover pensare che la riforma della decisione comporti una lesione dell'autorevolezza del giudicante o della credibilità del sistema. Al contrario, in tanto il sistema merita fiducia, in quanto sia capace di far emergere ed eliminare l'errore non solo di diritto, ma anche nella ricostruzione del fatto.
Si può discutere di come articolare il controllo, facendo però attenzione a non lasciarsi trascinare dagli slogan. I detrattori dell'appello puntano il dito contro la struttura del giudizio di secondo grado, concepito dal nostro codice come una rielaborazione critica del primo e non come un giudizio ex novo sull'imputazione. Si tratterebbe, come scrive Michele Vietti in Facciamo giustizia, di una "negazione del metodo accusatorio in quanto consente che una valutazione cartolare del materiale, compiuta al di fuori del contraddittorio da parte di un giudice che non abbia partecipato all'assunzione della prova, possa vanificare l'accertamento compiuto nel dibattimento di primo grado".
A me non pare che l'appello meriti un giudizio così severo.
L'impostazione legislativa mira a realizzare un equilibrio tra le esigenze in gioco. Giustizia sostanziale della decisione, ma anche tempi e costi contenuti. La previsione di un completo rifacimento del dibattimento comporterebbe un sacrificio eccessivo in termini di economia processuale, al quale non corrisponderebbe una maggiore affidabilità del risultato. Nulla assicura che un secondo giudice, chiamato a decidere da capo la questione, corra meno pericoli del primo di sbagliare. Anzi, il tempo trascorso dal fatto rischierebbe di rendere meno attendibili le prove. La scelta del mezzo di controllo della decisione, guidato dalla critica della parte interessata, consente invece una selezione mirata dell'oggetto del giudizio, ma soprattutto la valorizzazione, alla luce delle argomentazioni dell'appellante, dell'esperienza del primo accertamento, garantendo un più contenuto rischio di errore rispetto ad altri modelli.
E quanto al contraddittorio, né la Costituzione né la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo vietano al giudice di rivalutare una prova formata nel grado precedente. Il problema casomai è un altro. Non è ammissibile che la sentenza di proscioglimento sia ribaltata in appello sulla base di una reinterpretazione della prova, senza procedere alla riassunzione di quella stessa prova richiesta dall'imputato. L'attuale disciplina, che non distingue tra impugnazione del proscioglimento e della condanna, andrebbe modificata.
Ma un conto è migliorare il mezzo, altro è abolirlo.