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Tre lustri di carriera

, di Simona Cuomo e Adele Mapelli - rispettivamente coordinatrice del Diversity Management Lab e docente di leadership alla SDA Bocconi
L'impresa italiana investe soltanto su poche persone e quasi sempre comprese tra i 30 e i 45 anni

Il tema dell'age diversity assume oggi rilevanza primaria all'interno del dibattito più ampio relativo al diversity management, vale a dire all'interno delle politiche aziendali volte a gestire e valorizzare le diversità dei lavoratori, ed è stato definito prioritario nelle agende dei direttori Hr di aziende europee.

Simona Cuomo
Adele Mapelli

Nel discorso manageriale è noto quindi che se un'azienda decide di impegnarsi nella gestione della diversità deve andare oltre il tema del genere e affrontare sinergicamente il tema dell'età. I risultati di molti studi evidenziano infatti che la discriminazione per ragioni di età sul luogo di lavoro è la forma di discriminazione che viene denunciata con maggiore frequenza.

Non solo. A rendere ancora più urgente il tema, oltre alla consapevolezza che è in atto un processo di invecchiamento della forza lavoro (come conseguenza diretta dell'invecchiamento della popolazione mondiale), è il nuovo e recente indirizzo normativo che ha sancito il prolungamento dell'età lavorativa. Il provvedimento Monti-Fornero impone alle imprese di riflettere sul proprio modello di sostenibilità che fino a ieri è riuscito a mantenere un equilibrio soddisfacente tra politiche di assunzioni e di pensionamento/pre-pensionamento. La sostenibilità nell'immediato futuro sarà determinata da un nuovo modello in grado di trovare un punto di equilibrio tra la capacità di motivare e ingaggiare la forza lavoro più senior e la capacità di mantenere attivo il mercato delle assunzioni e i processi di sviluppo verso i target più giovani.

Molte aziende hanno implementato progetti interessanti di cross fertilization per gestire il conflitto tra gen y e baby boomers, progetti di formazione dedicati all'ingaggio dei più senior, progetti di rivisitazioni delle postazioni ergonomiche nelle fabbriche, progetti di mentoring e reverse mentoring. Ma questi progetti, sicuramente importanti, non risolvono il problema nella sostanza.

Come evidenziato da un nostro recente studio (Engagement e carriera: il peso dell'età), il tema centrale riguarda il modello di gestione delle carriere, modello focalizzato su una porzione minoritaria della popolazione organizzativa. Esiste una coorte di età in cui le aziende investono sugli individui: in generale, solo se il lavoratore ha un'età compresa tra i 30 e i 45 anni le imprese mettono in atto politiche gestionali per ascoltare il talento, per farlo crescere e valorizzarlo. Chi lavora e ha meno di 30 o più di 45 anni sembra pagare un prezzo dal momento che lo sviluppo e la carriera nelle organizzazioni moderne sono fortemente influenzati dall'età anagrafica.

Questo modello gestionale iper veloce (si consuma in poco tempo) e selettivo (è per pochi) sembra essere la fonte principale dei conflitti e del sentimento di discriminazione che ne consegue. Un modello che non è attrattivo per i più giovani, perché il total work che comporta non è coerente alla loro motivazione particolarmente sensibile al bilanciamento tra lavoro e vita privata, e che crea stereotipi nei confronti dei più senior, mediamente visti come più lenti e perciò meno produttivi e performanti.

Ma la capacità di riuscire a valorizzare le diverse età diverrà una competenza necessaria per generare valore e mantenere il vantaggio competitivo. E la revisione dell'attuale modello di carriera è a nostro avviso uno step fondamentale.