Tasse. L’Italia ha la pressione alta
Una delle rare misure ampiamente condivise nel dibattito sulle riforme per promuovere la competitività consiste nella riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, che in Italia appare particolarmente elevato. A giugno di quest'anno l'Eurostat divulgava i dati secondo cui nel 2007 l'Italia è stata il paese dell'Unione europea con la più alta pressione fiscale sul lavoro: il 44%, un dato di sicuro rilievo che ha ricevuto ampia eco nel nostro paese.
L'esame delle entrate delle pubbliche amministrazioni conferma un carico fiscale sbilanciato a sfavore dei redditi da lavoro dipendente. In tal senso, un riequilibrio appare certamente auspicabile. Credo, tuttavia, che occorra grande prudenza nell'utilizzare i confronti internazionali in materia, al fine di evitare diagnosi non corrette dei problemi e cure inadatte. Ad esempio, il dato aggregato sul cuneo fiscale è certamente rilevante, ma altrettanto importante è la sua composizione in imposte e contributi sociali. È noto che gli effetti distorsivi della pressione fiscale sul lavoro sono attenuati in presenza di schemi assicurativi in cui l'accesso alle prestazioni sociali, e il relativo importo, è condizionato al pagamento dei contributi sociali. In effetti, secondo i dati Eurostat, in Italia la maggiore pressione fiscale sul lavoro è quasi interamente spiegata dagli elevati oneri contributivi. In tal senso, la situazione italiana appare più incoraggiante rispetto a quella di altri paesi europei, come la Danimarca, in cui la quasi totalità della spesa sociale è finanziata attraverso la fiscalità generale.Sulle determinanti delle entrate contributive occorrerebbe soffermarsi in maggior dettaglio. Giova ricordare che al dato contribuiscono anche la struttura demografica del paese e la ripartizione pubblico-privato delle spese per prestazione sociale. È stato dimostrato che se accanto alle erogazioni delle pubbliche amministrazioni si includono anche le prestazioni private, la spesa per la protezione sociale del nostro paese è sensibilmente inferiore a quella dei maggiori paesi europei e vicina a quella Usa. Il confronto fra i modelli di stato sociale dovrebbe allora avvenire sulla base del costo (pubblico e privato) e della capacità di protezione della popolazione dai grandi rischi sociali: le recenti esperienze rendono ora manifesta la crisi di tutte le provvidenze di origine aziendale negli Usa. Un secondo esempio riguarda il trattamento dei redditi da lavoro indipendente, che Eurostat include nei redditi da capitale. Le ridotte aliquote contributive per questa tipologia di lavoratori (ed il differente trattamento ai fini della determinazione dell'imponibile Irpef) non incidono, quindi, sul cuneo fiscale sul lavoro. Questi effetti di composizione generano problemi di comparabilità internazionale, soprattutto per il fatto che, nel 2007, i lavoratori indipendenti superavano il 26% degli occupati in Italia.La precedente osservazione induce a una seconda considerazione. In passato, si è spesso ricorso a una strutturazione selettiva del carico contributivo sul lavoro, privilegiando determinati settori economici e/o tipologie contrattuali. Scelta che genera comportamenti elusivi, distorcendo le scelte di mercato. In alcuni casi questi effetti costituiscono un esplicito obiettivo del legislatore; tuttavia, a mio giudizio, spesso vi è stata scarsa consapevolezza del problema, finendo per incentivare tipologie contrattuali diverse dal lavoro a tempo indeterminato, con ricadute non sempre positive sulla qualità dei lavori creati. Considerazioni simili si applicano, in parte, anche agli interventi volti a differenziare il carico tributario e contributivo per specifiche componenti della retribuzione, di cui la partecipazione dei lavoratori agli utili d'impresa offre un esempio di grande attualità.Infine, la copertura finanziaria della riduzione del carico fiscale sul lavoro richiederà un aumento di altre entrate, quali l'Iva (Eurostat evidenzia un'aliquota d'imposta per l'Italia del 17,1%, contro una media Eu27 del 22,2%). L'alternativa è una riduzione della spesa sociale. Ma non sarebbe la strategia più adeguata per vincere la difficile sfida della competitività.