Sei pilastri per reggere la pubblica amministrazione
In materia di pubblico impiego, dal 2010 l'Italia ha promosso una serie di interventi accomunati dal mantra del contenimento della spesa. Le principali novità hanno infatti riguardato la riduzione del numero dei dipendenti attraverso il blocco del turn-over, la sospensione dei rinnovi contrattuali e la diminuzione delle retribuzioni dei dirigenti.
Marta Barbieri |
Sono trend che caratterizzano molti paesi Ocse: alcuni di questi hanno fissato un tasso o un ammontare di riduzione dei dipendenti (-12% entro il 2014 per il Civil Service irlandese e contrazione di 120-150 mila unità nei Paesi Bassi), altri hanno individuato un tasso di contenimento dei rimpiazzi (Spagna e Grecia sostituiscono 1 dipendente ogni 10 e Francia ed Austria 1 ogni 2). Diversi hanno congelato gli aumenti salariali (Gran Bretagna, Paesi Bassi, Canada, Usa, ecc.), alcuni hanno optato per un vero e proprio taglio degli stipendi (Spagna e Grecia). Inoltre, è di luglio la proposta del Portogallo di aumentare l'orario di lavoro dei dipendenti da 35 a 40 ore settimanali, a parità di retribuzione.
All'apparenza allineata, l'Italia pare titubante nella fase attuativa, caratterizzandosi per continui stop and go che generano frammentarietà e contraddizioni. Si pensi alla sentenza della Corte costituzionale del 2012 che ha giudicato incostituzionali i tagli agli stipendi dei dirigenti o alla decisione di luglio del Senato di non procedere alla sforbiciata del 25% alle retribuzioni dei manager delle società pubbliche quotate. Ancora, le previsioni del Dl di agosto sulla razionalizzazione della spesa nella p.a. e nelle società partecipate (ad es. l'assunzione di 120 unità per rafforzare le politiche di coesione), le cui contraddizioni non passano inosservate alla Commissione lavoro del Senato che chiede modifiche per garantire la sostenibilità economica e organizzativa delle assunzioni e il rispetto delle modalità di ingresso nella p.a.
Ma soprattutto, a differenza di altri paesi Ocse, appare assente una strategia di ampio respiro capace di allineare, nel tempo, numeri e qualità dei dipendenti alle sfide che il settore pubblico deve affrontare. In questa direzione i pilastri sui quali puntare per una vera riforma dovrebbero essere almeno sei: il superamento dei modelli tradizionali, promuovendo flessibilità organizzativa e responsabilizzazione; il contenimento dell'effetto invecchiamento (quasi il 50% dei dipendenti ha più di 50 anni) avvicinando talenti e giovani al settore pubblico (con contratti ad hoc e percorsi preferenziali per neo-diplomati e neo-laureati come in Germania e Usa); l'introduzione del competency management a supporto di un migliore impiego delle risorse umane e sistemi di gestione del personale più moderni. Ancora, serve porre l'attenzione alla motivazione, puntando su leve intrinseche, incentivi immateriali, creazione di climi positivi e di fiducia e sviluppo del senso di appartenenza; favorire la mobilità interna ed esterna per assicurare una distribuzione più equa delle risorse e favorire percorsi di crescita individuali; promuovere la meritocrazia nei processi di selezione e carriera.
Se questi sono i pilastri, alla base devono esserci tre condizioni. Che il legislatore sia disposto a fare un passo indietro promuovendo una sostanziale semplificazione normativa, che gli uffici del personale siano qualificati, ovvero capaci di disegnare nuove strategie e di introdurre sistemi innovativi, e che i dirigenti siano disposti ad assumersi la responsabilità di gestire i propri collaboratori.