Se l'Italia resta ferma al modello degli anni '70
L'Italia è ferma da 15 anni. Il Giappone da 25. La crisi finanziaria - alla fine degli anni Ottanta in Giappone, dal 2008 in Italia - spiega solo in parte il venire meno della crescita in questi due paesi. Esiste una ragione più profonda: la loro incapacità di passare dalla fase della crescita per imitazione a quella della crescita per innovazione. Quando un paese è lontano dalla frontiera tecnologica, come l'Italia fino agli anni Settanta e il Giappone ancora per un decennio, crescere è relativamente facile. È sufficiente importare tecnologie sviluppate altrove - il più delle volte negli Stati Uniti, come gli elettrodomestici e le automobili per esempio nel caso italiano - e imparare a produrre meglio e in modo più efficiente. È il caso dell'elettronica giapponese negli anni Ottanta, della Toyota un decennio dopo, o degli elettrodomestici in Italia trent'anni prima. Negli Stati Uniti, negli anni Ottanta, si prevedeva che il Giappone sarebbe diventato il paese leader nell'innovazione e nella tecnologia, e ci si chiedeva che cosa fare per stare al passo con Tokyo. Non si era capito che quella corsa era fondata sull'imitazione e che quindi era destinata a fermarsi.
Francesco Giavazzi |
Per imitare servono ampie disponibilità finanziarie per investire e una buona organizzazione del lavoro. Immaginazione, innovazione, una finanza capace di finanziare idee, sono irrilevanti o addirittura controproducenti. Né è di ostacolo, anzi spesso aiuta, una presenza dello Stato nell'economia: l'Iri in Italia, il Miti in Giappone.
Ma quando un paese raggiunge la frontiera tecnologica, lo spazio per crescere imitando si restringe. Per continuare a crescere occorre innovare, cioè spostare la frontiera tecnologica. Il guaio è che proprio le istituzioni che erano adatte per la fase dell'imitazione sono di ostacolo all'innovazione. Non servono grandi banche, soprattutto se per un prestito chiedono garanzie reali: servono fondi di private equity e un mercato azionario fluido che consenta la quotazione di aziende anche piccole. Anche lo Stato è un ostacolo: pensate se un dirigente dell'Iri, pur bravissimo a gestire una grande acciaieria, può essere la persona giusta per gestire una start-up innovativa. Ma una volta che esistono, le istituzioni tendono a proteggersi e a perpetuarsi. Smantellare grandi banche potenti è difficile, spesso impossibile. Altrettanto difficile ridurre il peso dello Stato nell'economia perché negli anni la politica si è abituata a vivere in simbiosi con le grandi imprese pubbliche. E così chi pur avrebbe la capacità e la voglia di innovare si sposta altrove e il paese si ferma. È accaduto in Giappone e anche in Italia. Non è certo l'unica spiegazione del perché la crescita si sia arrestata, ma è una spiegazione chiave.
In un libro importante (La nuova geografia del lavoro, Mondadori, 2013) Enrico Moretti, laureato in Bocconi e ora professore a Berkeley, esamina i cambiamenti che stanno trasformando il lavoro nei paesi industrializzati. Ci troviamo, spiega Moretti, di fronte a uno spostamento da economie fondate sulla produzione industriale tradizionale ad altre basate sull'innovazione e sulla produzione di beni e servizi ad alto contenuto di capitale umano. Moretti mostra, per esempio, che in una città americana, per ogni nuovo posto di lavoro in aziende innovative, se ne generano altri cinque in settori tradizionali. Moretti fa l'esempio di Twitter che ha 900 dipendenti, i quali generano lavoro per 4.500 persone in servizi di vario tipo, dalla lavanderia cinese al commercialista, all'agente immobiliare, all'avvocato. La Silicon Valley o i quartieri di Boston attorno al Mit sono fra le aree degli Stati Uniti a più alta occupazione non perché le aziende high tech creino migliaia di posti di lavoro, ma perché ciascuno di quei lavori ne genera cinque nei servizi. Senza le imprese innovative non solo non ci sono i lavori high tech, scompare anche la domanda di lavori nei servizi. L'Italia, argomenta Moretti, non ha saputo passare alla fase dell'innovazione. Le nostre aziende sono troppo piccole, quindi non investono in ricerca e sviluppo. La finanza è dominata da banche antiquate che non fanno prestiti se non disponi di una garanzia immobiliare. Non siamo attraenti per il capitale umano che emigra verso i paesi industrializzati.
Raccontava anni fa il ministro degli esteri della Romania: "Senza una politica di immigrazione intelligente i nostri ragazzi più svegli andranno tutti negli Stati Uniti e in Svezia e, quando sarete obbligati ad aprire le frontiere, in Italia arriveranno solo i nostri bravi contadini". E soprattutto non funziona la giustizia civile, fattore che danneggia i potenziali imprenditori più delle imprese tradizionali. Se fai un contratto con la Fiat è la reputazione della Fiat che ti garantisce. Ma se finanzi un giovane e sai che, se ve ne fosse bisogno, sarebbe inutile rivolgerti a un giudice, corri un rischio elevato e forse lasci perdere. Occorre cominciare da qui. L'alternativa è lasciare a nostri figli un paese senza speranza.