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Sanità. Un sistema che redistribuisce denaro

, di Caterina Ferrario e Alberto Zanardi - rispettivamente, ricercatrice di Scienza delle Finanze a Ferrara e collaboratrice di Econpubblica Bocconi, ordinario di scienza delle finanze a Bologna e research fellow di Econpubblica
La salute sposta il 6,9% del reddito nazionale dalle regioni ricche a quelle povere

Il decentramento fiscale è nell'agenda delle riforme di molti paesi. Talvolta queste riforme sono utilizzate dai governi centrali anche come strumento per tutelare la coesione nazionale di fronte all'indebolimento dei valori di solidarietà nazionale e alle conseguenti spinte secessioniste. Rispetto all'intervento centralizzato, il decentramento rende infatti più trasparenti i flussi di risorse dai territori ricchi a quelli poveri, riconoscendo ai primi maggiori strumenti di controllo sull'utilizzo da parte dei secondi delle risorse finanziarie trasferite. Al contempo, tuttavia, la maggiore visibilità nei flussi perequativi può sollecitare le regioni più ricche ad adottare, anche sulla base di argomentazioni efficientistiche, atteggiamenti "meno solidaristici" verso le politiche redistributive attuate dal bilancio pubblico.

Questo scenario ben rappresenta l'attuale situazione politico-istituzionale del nostro paese e l'essenza del dibattito in corso sul federalismo fiscale. In particolare, il Servizio sanitario nazionale italiano costituisce un caso esemplare per indagare gli effetti del decentramento fiscale sulla solidarietà tra territori. Dal punto di vista della spesa, la sanità è di competenza regionale, mentre sotto il profilo del finanziamento le regioni utilizzano tributi propri (primariamente l'Irap) integrati da trasferimenti dal governo centrale. Infatti lo stato fissa gli standard minimi per il servizio sanitario, da garantire a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro residenza, e attribuisce trasferimenti sufficienti (almeno sulla carta) per consentire a ciascuna regione il pieno finanziamento di tali standard. Questi trasferimenti sono finanziati mediante la fiscalità statale che attinge dalle varie giurisdizioni regionali in misura assai differenziata in ragione della distribuzione territoriale delle basi imponibili. Da qui l'effetto di perequazione interregionale della sanità pubblica.In un recente working paper di Econpubblica (What happens to interregional redistribution as decentralisation goes on? Evidence from the Italian NHS, WP Econpubblica 144/2009) abbiamo stimato che l'intervento pubblico in sanità realizza in Italia una redistribuzione del reddito tra territori regionali pari a ben il 6,9% del pil (circa il 20% della redistribuzione prodotta dall'intervento pubblico complessivo). La sanità pubblica è quindi attualmente un potente strumento di perequazione interregionale. È la portata di questa redistribuzione che viene oggi posta in discussione dalle proposte di riduzione dei livelli minimi di servizio garantiti dall'intervento dello stato centrale. Nel lavoro si mostra in che misura un'eventuale riduzione dei livelli standard di servizio possa indebolire la redistribuzione attuata dal Servizio sanitario nazionale e come questo risultato dipenda crucialmente dalle modalità di finanziamento degli standard (e non solo dal loro livello). Vengono in particolare ipotizzati tre possibili scenari di finanziamento della sanità che si distinguono per il grado via via crescente di autonomia regionale e di enfasi sulla territorialità dei tributi.Nel primo scenario il governo centrale ha il controllo totale sulle basi imponibili utilizzate per finanziare la sanità (finanza derivata), nel secondo mantiene un controllo solo parziale (analogamente al quadro istituzionale attuale), nel terzo cede alle regioni tutte le basi imponibili necessarie al finanziamento della sanità. Se in tutti gli scenari la riduzione degli standard minimi determina una contrazione della redistribuzione, l'effetto è decisamente più marcato nel terzo caso. Inoltre la forbice tra le risorse per la sanità disponibili nei territori ricchi e in quelli poveri si amplia con l'accrescersi dell'autonomia regionale, con il risultato che alcune regioni potranno finanziare servizi decisamente superiori agli standard mentre altre riusciranno soltanto a raggiungere i minimi: ad esempio, nel terzo scenario una riduzione degli standard al 90% dei livelli attuali, mentre consentirebbe alla Calabria soltanto di finanziare il livello minimo, permetterebbe invece alla Lombardia di disporre del 124% delle risorse attuali.