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Rinascimento contemporaneo

, di Anna M. Alessandra Merlo - ricercatrice presso l'Universita' della Valle d'Aosta e docente a contratto presso il Dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico Bocconi
La cultura come risorsa economica del Terzo millennio o come via per l'empowerment basato su educazione e formazione. Due strade diverse per raggiungere un unico obiettivo

Di cultura, istituzioni e progetti culturali oggi si parla molto, e molto anche in chiave economica. La cultura è da molti considerata come la più interessante risorsa del terzo millennio nei paesi postindustriali: generatore di occupazione e di redditi, catalizzatore di finanziamenti per la realizzazione di grandi eventi e investimenti, fonte di attrattività di territori e interi paesi, oggetto di consumi che manifestano andamenti anticongiunturali (dunque capaci di esorcizzare la crisi offrendo divertimento ed evasione). Si tratta di un nuovo modello economico, un sistema che ritiene che le opportunità di crescita e competitività globali derivino dalle conoscenze e dalla creatività.

Questa è l'impostazione che caratterizza scelte politiche a livello internazionale (come le candidature per gli expo), opzioni di investimento che hanno come protagonisti imponenti progetti e prestigiose archistar (per esempio i grandi musei contemporanei), il pensiero di studiosi e addetti ai lavori (si pensi al modello del distretto culturale evoluto), economie di città e nazioni (come nel caso delle filiere della moda e del cinema non più solo occidentali ma di tanti paesi emergenti come Africa e India). In una concezione della cultura decisamente business oriented, fashionista, luxury, dunque anche elitaria ed esclusiva. Ma è tutto oro quello che luccica?Se è vero che in alcuni casi grandi investimenti ed eventi generano grandi rinascite (il caso della città di Torino a questo punto si può considerare emblematico), è altrettanto vero che tantissimi sono i grandi progetti che tali non sono e che lasciano dietro di sé opere di impossibile riconversione e filiere che dopo una brevissima stagione di successo si svuotano di ogni prospettiva. In alternativa alla concezione della cultura finora descritta ne esiste un'altra, meno appariscente ma non meno potente, basata su un presupposto del tutto diverso, ossia che le risorse non debbano essere destinate a luoghi, oggetti o progetti, bensì alle persone e alle loro comunità, che in questo modo sapranno poi autonomamente generare i propri modelli di sviluppo. È l'interpretazione della cultura come via per l'empowerment, che si sostanzia in azioni di educazione e formazione, potenziamento dei mezzi di comunicazione e dell'informatizzazione, garanzia dei diritti di accesso e partecipazione, dunque una cultura come strumento di inclusione e democratizzazione. Se la prima impostazione vanta importanti sostenitori ed esempi, questa seconda non è certo da meno: studiosi del calibro di Amartya Sen, Martha Nussbaum, Jeremy Rifkin, Claudio Abbado con il Progetto Abreu, il progetto inglese Creative Britain teorizzano e praticano arte e cultura in questa accezione. In un'epoca in cui l'essere umano non soltanto ha il diritto e il dovere all'autonomia e alla responsabilità, ma è anche rivolto intensamente a una nuova ricerca del senso (P. Wong, The human quest of meaning, 2012). E in cui, venute meno le culture prescrittive della religione, dell'educazione e della vita civile in chiave normativa, la cultura in senso ampio può giocare il ruolo di nuovo generatore di senso, in una sorta di rinascimento contemporaneo, per superare l'epoca di medioevo postmoderno in cui l'umanità, secondo alcuni (vedi P. Khanna, Come governare il mondo, 2012), sembra trovarsi. Le due impostazioni non sono incompatibili bensì complementari: occorre saper scegliere che tipo di cultura praticare a seconda delle circostanze. Anche se si dovesse trattare di negare la realizzazione di qualche progetto apparentemente vitale...