Riciclaggio, questo conosciuto
Che il money laundering costituisca una delle espressioni più tipiche della criminalità di profitto è affermazione che indica molto più di quanto possa sembrare. Sottacendo le stime sulla dimensione del riciclaggio di denaro sporco (secondo stime prudenziali del Fondo monetario internazionale circa il 2,5% del pil mondiale) e l'ampia illustrazione che la letteratura specialistica fa dei suoi perversi effetti a livello micro e macro-economico, è bene soffermarsi sul suo effetto moltiplicatore.
Secondo il modello di stima della commissione istituita presso il dicastero dell'economia dal governo uscente per la predisposizione di un Testo Unico in materia (d.lgs 231/2007), il riciclaggio moltiplica il peso economico del crimine. Solo tramite l'attività di "pulitura" dei proventi da reati, le grandi organizzazioni criminali possono utilizzare il loro ricavato per consumi e investimenti legali e, quindi, sopravvivere e proliferare. In altri termini, il money-laundering costituisce il canale necessario e strutturale per la quota dei profitti della criminalità organizzata non utilizzabile per finanziare nuove operazioni illegali.
In ambito internazionale, l'attività di contrasto al money-laundering coinvolge un variegato coacervo di organizzazioni e si caratterizza per il peculiare rilievo assunto dagli strumenti di soft law: le 40 raccomandazioni del Gruppo di azione finanziaria internazionale (Gafi), emendate da ultimo nel 2003, sono state le autentiche linee guida per l'adozione dei trattati internazionali vincolanti in materia, nonché delle direttive Ce. Accanto all'obbligo di penalizzazione delle attività di money-laundering e al progressivo ampliamento dei "reati presupposto" (dal traffico di stupefacenti a alla criminalità organizzata) gli strumenti internazionali impegnano gli stati a introdurre particolari misure di confisca e sequestro e migliorare i meccanismi di cooperazione penale. Importanza primaria rivestono le misure di prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e finanziamento del terrorismo internazionale. La necessità di integrare il profilo della repressione penale con adeguate misure preventive ispira il d.lgs 231/2007 di attuazione alla terza direttiva Ce antiriciclaggio. Esso contiene un'articolata disciplina volta a promuovere, sotto la responsabilità del ministro dell'economia e delle finanze, una stretta collaborazione tra l'Unità di informazione finanziaria (Uif) istituita presso la Banca d'Italia, le autorità di vigilanza di settore, gli ordini professionali, la Direzione nazionale antimafia e la Guardia di finanza. Stringenti obblighi di cooperazione attiva (verifica dell'identità del cliente, individuazione del beneficiario ultimo delle operazioni, monitoraggio del rapporto professionale con i clienti, segnalazione delle operazioni sospette all'Uif) e l'obbligo di astensione, nel caso sia impossibile adempiere ai precedenti doveri, sono imposti a vari soggetti tra cui intermediari finanziari, talune categorie di professionisti e gestori di case da gioco. L'obiettivo perseguito è duplice: da un lato rendere massimi i benefici collettivi (stimati attorno al 3% del pil), attraverso una regolamentazione che innalzi i costi per i riciclatori; dall'altro rispettare un vincolo di efficienza determinato dall'innegabile esistenza di costi privati per i destinatari degli obblighi.
L'approccio d.lgs 231/2007 è pragmatico e rispettoso del perimetro tracciato dalla normativa comunitaria. Tuttavia, presenta un limite intrinseco: l'articolato sistema di segnalazione e individuazione delle operazioni sospette deve far affidamento sulla collaborazione dei soggetti che, talvolta, nella prassi operativa, sono gli autentici architetti delle operazioni illecite. L'efficacia del sistema, dunque, sarà anche indice della volontà collettiva di incidere sensibilmente sul fenomeno.