
Quando restare soli fa male
Nel 2023 il Surgeon General degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto che ha ottenuto molta visibilità sull’importanza della mancanza di relazioni sociali come fattore di rischio per la salute degli americani. Nel rapporto si parla apertamente di “epidemia della solitudine”, mostrando come in generale il tempo speso in situazioni di isolamento sociale fra gli americani sia aumentato sensibilmente negli ultimi 20 anni, indipendentemente dal genere, ma con picchi fra le minoranze etniche, i poveri e all’interno della comunità LGBTQ+. Differenti classi di età sono colpite in modo diverso dal fenomeno, con i giovani adulti che mostrano livelli più alti di solitudine rispetto agli anziani, i quali però risultano più vulnerabili rispetto a conseguenze quali mortalità e prevalenza di patologie come diabete e malattie cardiovascolari. Evidenze simili, sebbene con numeri minori, sono state trovate anche per l’Unione Europea in un rapporto pubblicato nel 2024.
In questo quadro epidemiologico, rimane ancora molto spazio per la ricerca. Non tutta la letteratura, per esempio, è d’accordo nel definire “epidemia” un fenomeno sicuramente rilevante, ma che probabilmente è sempre esistito (e con numeri altrettanto importanti) e con il quale solo ora abbiamo trovato il coraggio di confrontarci. Inoltre, è particolarmente interessante cercare di comprendere le cause di questa diffusione. Che ruolo hanno i social media fra i giovani? E la ridefinizione del welfare state per gli anziani? E la cultura individualista e iper-competitiva sempre più dominante a tutti i livelli? Nemmeno sulla rilevanza per la salute il consenso è definitivo. In particolare, è difficile individuare un rapporto di causalità fra una sensazione soggettiva come la solitudine e delle condizioni mediche oggettive, rapporto che al momento è principalmente basato su evidenze di associazioni fra variabili e congetture più o meno sensate. Infine, se davvero la solitudine fa male alla salute, le politiche e le azioni da intraprendere a fini preventivi non sono facili da definire né tantomeno da implementare, in quanto richiedono una visione multidisciplinare in grado di ragionare ed agire all’intersezione fra le sfere sociali, mediche, psicologiche ed economiche di una persona e di una comunità.
In una serie di lavori finanziati dal programma “Age-IT” del PNRR, con CERGAS e Dondena, ci focalizziamo proprio su alcune di queste domande in relazione alla popolazione anziana italiana ed internazionale. La prima questione che abbiamo affrontato, per esempio, riguarda proprio se sia possibile identificare una catena di causalità fra solitudine e condizioni di salute. Utilizzando due famose survey internazionali su circa 70.000 ultracinquantenni, l’Health e Retirement Study (HRS, per gli USA) e la Survey of Health, Ageing and Retirement (SHARE, per l’Europa), cerchiamo di ricostruire l’evoluzione della salute di chi, per varie ragioni, si trova a dover cambiare vita, rimanendo da sola/o. Data l’età del campione (over 50), nella maggior parte dei casi l’improvviso isolamento è dovuto alla perdita di un o una partner, evento che, soprattutto fra gli anziani, è fonte di particolare stress emotivo e psicologico. A seguito di uno shock di questo tipo è ovviamente logico pensare che il senso di solitudine possa aumentare, a volte anche in modo permanente, creando quello che definiamo una solitudine “indotta” da un evento rilevante, escludendo così possibili casi di causazione inversa (i.e. coloro che sono e vivono soli come conseguenza di una malattia). In questo contesto, con Irene Torrini (Bocconi) e Maria Sironi (Università di Padova) mostriamo come la solitudine indotta rappresenti un significativo fattore di rischio per variabili rilevanti come la mortalità, la morbidità e le malattie psichiatriche. In altre parole, fra gli anziani americani ed europei, sentirsi ed essere soli rappresentano due dimensioni parzialmente differenti fra loro e solo in parte sovrapponibili. La dimensione soggettiva pura (la solitudine, appunto) rende una persona anziana significativamente più vulnerabile e fragile con effetti causalmente identificati sulla salute ed evidenti già a partire dall’anno in cui lo shock viene vissuto. Il senso di solitudine fa male e, in alcuni casi, addirittura uccide.
Rimane da capire come agire per ridurre un fattore di rischio così soggettivo. Dal punto di vista dell’economia pubblica e sanitaria in particolare, se la dimensione sociale impatta così fortemente su quella sanitaria, sarebbe importante comprenderne le interazioni e gli spillover, ottimizzandola e superando la mentalità da silos separati a compartimenti stagni che ha per anni caratterizzato la spesa per welfare in Italia e in Europa. Per esempio, è perfettamente possibile che investendo di più e meglio in spesa sociale per ridurre la solitudine degli anziani si potrebbero risparmiare risorse sanitarie e aumentare la produttività o i consumi di tutte quelle famiglie che, almeno in parte, questi anziani li devono prendere in carico in alcune fasi della loro vita.