Quella sfilata chiamata desiderio
Almeno una volta nella vita vi sarà capitato di guardare i capi di una sfilata e farvi la domanda: ma chi indosserà quegli abiti?! La risposta, a volte, è nessuno. Assieme a meravigliosi abiti da sera ed eleganti look quotidiani capita, infatti, di vedere abiti che superano i confini dell'eccentricità per trasformarsi in parodia trash, o capi dalla vestibilità impossibile, o look che semplicemente non donano. E se stanno male a una modella, figuriamoci alle donne comuni mortali.
In realtà la missione di alcuni capi che sfilano non è vendere; la regola del gioco è alimentare il fattore sogno e creare l'effetto notizia. Alla sfilata seguirà una campagna vendite dove i compratori vedranno in showroom un'offerta molto più ampia rispetto ai capi in passerella. Solo gli articoli del campionario che raggiungeranno un certo numero di ordini saranno messi in produzione, tutti gli altri verranno annullati; in altre parole molte trovate stravaganti rimarranno solo dei prototipi. La vera funzione della sfilata non è, perciò, fare business, quanto comunicare attirando ogni sei mesi l'attenzione sul marchio, approfittando dell'enorme copertura mediatica di cui ancora gode questo evento.
Tuttavia, proprio la trasformazione in strumento d'immagine pone alcune domande.
Anzitutto, se la sfilata non serve più per vendere, ai fini della comunicazione è ancora corretta la tempistica sfasata di una stagione rispetto a quando i capi saranno in negozio? Per esempio, a febbraio-marzo sfilerà la collezione autunno/inverno: ciò confonde i consumatori finali che vedono nello show dei capi che potranno acquistare solo dopo sei mesi. Ai fini delle vendite non sarebbe più efficace se fosse possibile acquistare subito gli abiti che sfilano? Alcuni marchi della moda, come Burberry e Moschino, hanno intrapreso da qualche tempo un esperimento in tal senso rendendo possibile acquistare sul proprio sito alcuni capi della sfilata in tempo reale, ben prima di quando lo stesso abito sarà in vendita in negozio. Addirittura il Cfda, Council of fashion designers of America, ha recentemente commissionato a Boston consulting group uno studio per ridefinire il futuro delle sfilate valutando tempistiche più allineate alle consegne nei department stores; se così avvenisse si rescinderebbe ogni legame tra sfilate e campagna vendite, una rivoluzione copernicana.
Inoltre, dato che ormai la sfilata è uno strumento di promozione del brand verso i clienti finali perché non aprire questo evento a tutti coloro che sarebbero interessati a partecipare, magari pagando lautamente il biglietto? Lo scorso settembre, in occasione del suo sbarco a New York, Givenchy ha esteso la partecipazione alla sua sfilata a 280 studenti del Fashion institute of technology, e a 720 persone che hanno prenotato su Internet il biglietto.
C'è poi chi delle sfilate ha deciso di fare proprio a meno: a dicembre Tom Ford ha comunicato la decisione di non sfilare più nella settimana uomo londinese ma di mostrare i capi delle collezioni maschili e femminili attraverso appuntamenti privati con stampa e buyer durante la New York fashion week. Alla sua sono seguite altre rinunce eccellenti in favore di un ritorno in showroom. E siamo solo all'inizio.
La settimana della moda donna a Milano si apre quindi, il 24 febbraio, in uno scenario fluido che vede una formula come quella della sfilata, creata a fine Ottocento, accusare il peso di tutti i suoi anni e sottoposta perciò a un profondo ripensamento. Con la speranza di poter guidare dall'Italia una riflessione in tal senso, progettando una nuova visione di questo evento, senza limitarsi a subire le aggressive strategie di marketing dei nostri cugini d'oltreoceano.