Quando sbarcano gli immigrati, non temere per il tuo lavoro
L'effetto dell'immigrazione sui posti di lavoro degli indigeni è di gran lunga inferiore a quanto comunemente ritenuto, o temuto, da cittadini e politici ed è solitamente un effetto di segno positivo, secondo quanto calcolato da tre lavori di cui è coautore Gianmarco Ottaviano del Dipartimento di Economia.
In Rethinking the Gains of Immigration on Wages (in corso di pubblicazione sul Journal of the European Economic Association) Ottaviano e Giovanni Peri (University of California, Davis) modificano un precedente modello di equilibrio generale di George Borjas per tenere in considerazione due fatti: che immigrati e indigeni non sono sostituti perfetti nel mercato del lavoro neppure quando condividono le stesse caratteristiche di esperienza e di istruzione e che il capitale fisico è soggetto ad aggiustamenti come reazione alla crescita di produttività che risulta dall'impiego di immigrati meno costosi. In parole semplici, gli immigrati entrano in concorrenza solo con una piccola parte (circa il 10% negli Stati Uniti) dei lavoratori indigeni nel mercato del lavoro e non influenzano gli altri. Inoltre le imprese, grazie all'utilizzo di lavoro meno costoso, diventano più competitive e possono aprire nuovi impianti, che danno lavoro sia agli immigrati sia agli indigeni. Considerando questi due effetti e implementando il modello con dati su salari e immigrazione negli Stati Uniti nel periodo 1990-2004, gli studiosi scoprono che nel lungo termine il salario medio dei lavoratori nati negli Stati Uniti ha registrato un aumento significativo (+1,8%) in seguito all'immigrazione e che il gruppo dei lavoratori indigeni meno scolarizzati ha subito una perdita salariale inferiore a quanto calcolato in precedenza.
In Immigration, Offshoring and American Jobs (NBER Working Paper 16439), Ottaviano, Peri e Greg Wright (University of California, Davis) approfondiscono l'idea di sostituibilità imperfetta e confrontano l'effetto dell'immigrazione e quello della delocalizzazione sull'occupazione in 58 settori industriali americani nel periodo 2000-2007. Muovendosi lungo uno spettro che va dalle mansioni a maggiore intensità manuale e di routine a quelle a maggiore intensità cognitiva, la produttività degli immigrati diminuisce (per cui questi vengono impiegati all'estremità di routine dello spettro), mentre i costi della delocalizzazione aumentano (rendendo improbabile il suo uso all'estremità cognitiva). Il modello prevede che in equilibrio ogni industria assuma immigrati per le mansioni più routinarie, delocalizzi le mansioni intermedi e impieghi indigeni per quelle cognitivi. "Di conseguenza", scrivono Ottaviano, Peri e Wright, "una diminuzione dei costi di delocalizzazione allarga la gamma delle mansioni delocalizzate, riduce la quota delle mansioni affidate a indigeni e immigrati, spinge gli indigeni verso mansioni a maggiore intensità cognitiva e gli immigrati verso quelle a maggiore intensità manuale e di routine", mentre una diminuzione del costo degli immigrati riduce la quota di mansioni delocalizzate ma ha solo un piccolo, o nessun effetto sui lavoratori indigeni. Ancora più importante, minori costi di delocalizzazione e immigrazione producono risparmi e migliorano la produttività, controbilanciando, in parte o del tutto, l'effetto negativo sulla quota di lavoro degli indigeni. Le previsioni sono confermate dal test empirico, che chiarisce, inoltre, che l'effetto totale sul livello (da distinguere dalla quota) di occupazione dei lavoratori indigeni è positivo nel caso dell'immigrazione e nullo nel caso della delocalizzazione.
In The Labor Market Impact of Immigration in Western Germany in the 1990s (in European Economic Review, Volume 54, Issue 4, May 2010, Pages 550-570; doi: 10.1016/j.euroecorev.2009.10.002), Ottaviano, Peri e Francesco D'Amuri (Banca d'Italia e University of Essex) calcolano l'effetto dell'immigrazione sui lavoratori indigeni in un mercato del lavoro molto meno flessibile di quello americano. Mentre nel mercato flessibile degli Stati Uniti sono i salari a rispondere allo shock dovuto all'immigrazione, per il più rigido mercato tedesco gli studiosi devono adattare il loro modello per rendere possibili risposte dell'occupazione, oltre che dei salari.Gli studiosi sviluppano l'idea di sostituibilità imperfetta sdoppiando la categoria degli immigrati in vecchi immigrati (che lavorano in Germania da 5 o più anni) e nuovi immigrati. Osservano così che la rigidità dei salari implica un effetto negativo dell'immigrazione sull'occupazione totale, ma che i vecchi immigrati sono quelli che ne risentono, mentre gli indigeni non ne sono toccati. "Le nostre stime", scrivono, "suggeriscono che, per ogni 10 nuovi immigrati, perdono il lavoro tra i tre e i quattro vecchi immigrati, mentre gli indigeni non soffrono alcuna conseguenza".
Gli autori confrontano il costo effettivo (perdita di salari e welfare) del flusso migratorio degli anni '90 per le casse tedesche e il costo ipotetico in uno scenario di perfetta flessibilità dei salari. Il risultato è che il costo dell'immigrazione è 20 volte più pesante nello scenario reale di rigidità salariale e sussidio di disoccupazione che nello scenario con piena flessibilità salariale e nessun effetto sull'occupazione. L'implicazione normativa: quando gli immigrati arrivano, lasciate funzionare il mercato.