Programmare la sregolatezza
Fino a qualche anno fa, sarebbe stata considerata un'eresia. Conciliare economia e cultura, l'una sinonimo di razionalità, l'altra dominata dall'irrequietezza del genio, sembrava un'impresa impossibile. Adesso, i due mondi si parlano e, in futuro, andranno sempre più a braccetto. Severino Salvemini, direttore del corso di laurea triennale in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione della Bocconi (Cleacc), spiega come cambierà la nostra concezione del lavoro e perché "questo sarà il settore che avrà il maggiore sviluppo". In un paese, l'Italia, che detiene il 50% del patrimonio artistico mondiale.
Salvemini, mettere insieme economia e cultura sembra un ossimoro. Ma è ancora così?
Per definizione, l'economia riporta alla razionalità, alla programmazione, all'ordine. Nell'immaginario collettivo, l'economia è una scienza esatta, l'arte è sregolatezza e genialità. Se partiamo da questi concetti distorti, la distanza c'è: gli artisti pensano che l'economia applicata all'arte sia da demonizzare e gli economisti diffidano dell'arte o della cultura perché non "dat panem". Negli ultimi dieci-quindici anni, però, questa distanza si è colmata: le nuove generazioni sono molto più abituate a concepire l'arte come qualcosa che deve fare i conti con il mercato.
Una svolta recente, dunque. Come hanno cominciato a parlarsi, i due mondi?
Attraverso la scorciatoia delle sponsorizzazioni, il mondo economico si è reso conto che la cultura può essere benefica, anche per esorcizzare il senso di colpa dato dalle speculazioni. Adesso, però, il discorso che deve essere fatto è un altro: l'economia deve superare le sponsorizzazioni e capire che l'arte può produrre risultati economici. Joseph Conrad raccontava di fare fatica a spiegare alla moglie perché stesse lavorando anche mentre guardava fuori dalla finestra. Lo stesso, nell'era postmoderna, vale per l'economia: bisogna capire che servizi e prodotti non vengono più venduti solo per il loro uso specifico. Ci sono tutta una serie di elementi simbolici intorno al prodotto, difficili da descrivere perché immateriali e intangibili. Ma sono elementi competitivi che chi produce non può più permettersi di ignorare, visto che il mercato stesso ne è ormai condizionato. La comprensione di questo concetto permette di superare la distanza tra economia e cultura.
Se è un discorso valido per il privato, lo è ancora di più per il settore pubblico.
Per la politica di una città o di una nazione vuol dire concepire la cultura non come un elemento residuale, ma come un elemento primario. Se nella finanziaria la priorità è data ai temi economici e il fondo per lo spettacolo è falcidiato del 30%, vuol dire che chi pensa alla politica del paese non ha la maturità di capire l'importanza della cultura.
Come si affronta il tema con i neoiscritti al corso di laurea, per evitare che incorrano negli stessi stereotipi?
Li portiamo a riflettere su due cose. La prima è che, sulla base delle statistiche, l'Italia raggruppa più del 50% del patrimonio artistico mondiale e possiede quasi 50 dei siti classificati patrimonio dell'umanità. Secondo l'Unesco, addirittura, il 30% del patrimonio si colloca in Toscana e in Umbria. E' un patrimonio che va mantenuto, e per farlo ci sono costi che possono essere sostenuti solo se ci sono degli introiti. L'Italia eccelle in alcune competenze, come quelle architettoniche, ma è in ritardo negli aspetti manageriali e di gestione artistica. E' proprio questo che diciamo ai nostri studenti, che in questi ambiti c'è ancora molto da fare e le possibilità di lavoro sono molteplici. In secondo luogo, li mettiamo di fronte a questa statistica: rispetto al passato, la vita media si allunga, ma si accorcia il tempo dedicato al lavoro. Adesso un terzo della vita media diurna è dedicato al lavoro, contro i due terzi che sono dedicati ad altro. E questi due terzi, circa 150-160 mila ore in 60 anni (la vita lavorativa media), confliggono con il vecchio paradigma di vita costruito su una logica fortemente lavorativa, quello delle generazioni precedenti. Ma vuol dire anche che qualcuno dovrà progettare il come riempire questo tempo, ovvero si dovrà occupare di libri, musei, radio, televisione, cinema, turismo o ristorazione in modo molto più professionale e organizzato di quanto si faccia adesso. Chi lo organizza prima avrà un vantaggio competitivo.
Ecco spiegata la necessità di un approccio economico alla cultura.
Certo, perché se è vero che chi si iscrive al Cleacc è naturalmente portato per l'arte (c'è chi suona, chi fa teatro), il nostro obiettivo, come è ovvio, è comunque quello di formare economisti, non musicisti, giornalisti o registi. Creiamo quello spicchio di professionalità che sta dietro il sipario, che magari non si vede, ma che è fondamentale per rendere la cultura una risorsa economica. E alle famiglie che ci domandano se questo è un settore nel quale si trova lavoro, noi rispondiamo che è uno di quelli che in futuro avrà il maggiore sviluppo.