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Prime donne d’accordo. Ma nessuno si muove

, di Luigi De Paoli - senior professor di economia e politica dell'energia
Copenhagen. Sono stati disattesi i primi impegni, che dovevano essere assolti entro il 31 gennaio

Ogni anno i paesi che hanno aderito alla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici del 1992 si riuniscono per discutere della sua attuazione. Col tempo le parti aderenti sono diventate 196 e gli osservatori un numero imprecisato. Ogni anno va così in onda una kermesse che, data la rilevanza del tema, attira anche l'attenzione dei media.

La quindicesima Conferenza delle parti (Cop15) di Copenhagen è finita con l'approvazione del Copenhagen Accord, che difficilmente rimarrà a lungo nella memoria. Anzi, lo stesso termine 'accordo' è stato preso dai più in modo ironico perché più che con un accordo la conferenza si è conclusa con un non-accordo.Il documento prevede: che l'aumento globale della temperatura non superi 2 °C; che si cooperi affinché il picco delle emissioni sia raggiunto il prima possibile (e quindi che si inizi a diminuire le emissioni quanto prima) riconoscendo che i pvs avranno più tempo a disposizione; che entro il 31 gennaio 2010 i paesi Ocse e Eit dovessero presentare gli obiettivi di emissione e i pvs (se lo volessero) i loro programmi di riduzione delle emissioni, mentre le misure di riduzione potranno essere comunicate anche successivamente. L'accordo prevede poi finanziamenti per la riduzione della deforestazione nei pvs; l'impegno dei paesi sviluppati a mobilitare 30 miliardi di dollari per il triennio 2010-12, arrivando a 100 miliardi all'anno entro il 2020, per aiutare i pvs a ridurre le emissioni e ad adattarsi ai cambiamenti climatici; la creazione, di un Copenhagen green climate fund per gestire gli aspetti finanziari dei programmi di aiuto. Dalla lettura della lista di impegni e da quanto (non) sta accadendo si deduce che si è potuto (e voluto) intitolare il testo conclusivo della Cop15 "Accordo di Copenhagen" perché contiene dichiarazioni senza impegni davvero chiari e vincolanti. Prendiamo le somme promesse ai pvs: chi le mette a disposizione? Dove andranno? Alla luce dell'accordo, la risposta non può che essere vaga.Prendiamo l'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura media sotto i due gradi. Come si può garantirlo quando le nostre conoscenze non consentono di dire con precisione qual è la concentrazione di gas di serra da non superare? È un'affermazione di principio astrattamente condivisibile e perciò facile da sottoscrivere se non si precisano le implicazioni operative. Prendiamo allora l'elemento più operativo: sapere se ci saranno vincoli cogenti sulle emissioni per tutti o almeno per alcuni dopo il Protocollo di Kyoto, i cui effetti finiscono nel 2012. Qui si è raggiunto il massimo del contorsionismo per accontentare tutti. I paesi industrializzati avrebbero dovuto presentare autonomamente i loro obiettivi di riduzione delle emissioni al 2020 entro il 31 gennaio, ma nessuno lo ha fatto. I Pvs, dal canto loro, dovevano (ma senza impegno!) presentare dei piani di riduzione delle emissioni (senza obbligo di dichiarare un livello di emissioni globali) e nemmeno loro per il momento lo hanno fatto. Ma era così difficile prevedere quello che finora è accaduto tenendo conto che in una trattativa nessuno fa concessioni, se non a fronte di concessioni altrui e che proprio la Cop15 dimostrava che la trattativa al momento si trovava su un binario morto? La conclusione della Conferenza di Copenhagen si presta dunque a ribadire alcuni concetti. La lotta ai cambiamenti climatici coinvolge tutti i paesi come inquinatori e come inquinati e ha un costo. Tutti devono perciò dare il loro contributo, seppure con un impegno diverso. Tale impegno non può essere lasciato alla buona volontà dei singoli paesi. Ai negoziati non si partecipa in 200: è giocoforza restringere il numero dei partecipanti ai principali player e poi aggregare gli altri. L'Europa si è presentata ai negoziati apparentemente unita perché aveva già stabilito di ridurre le proprie emissioni del 20% al 2020, ma nei fatti in ordine sparso. Finché primi ministri e presidenti fanno le prime donne anche sul clima è difficile pensare che l'Europa sia 'un' negoziatore.