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Nuovo cinema propaganda

, di Marina Nicoli - assegnista di ricerca presso il Dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico della Bocconi
La cinematografia mondiale tra le due guerre è anche storia di equilibri economici e politici. In Italia, fu il fascismo a rafforzare i rapporti tra stato e industria della pellicola

Alla fine degli anni Settanta, Jack Valenti, presidente della Motion picture export association ribadiva che i principi fondativi della politica economica dell'industria cinematografica americana erano quelli del libero scambio. In quegli anni il dibattito sulle politiche nel settore degli audiovisivi era particolarmente acceso, ma le sue origini risalgono alla prima metà degli anni Venti del Novecento, quando l'Europa iniziò ad affrontare il problema dell'invasione hollywoodiana.

Se da una parte le diverse cinematografie nazionali si trovavano in una situazione di crisi a causa delle conseguenze della Grande guerra, dall'altra il cinema americano si era imposto sui mercati internazionali attraverso i maggiori investimenti nei budget produttivi e promozionali, la superiore qualità tecnico-artistica dei film, l'integrazione verticale della filiera e il supporto diplomatico ricevuto dal Dipartimento di Stato. La reazione di difesa da parte dei governi europei non tardò ad arrivare. Il sorgere dei nazionalismi determinò inoltre una presa di posizione più forte: il cinema iniziò a essere percepito non più soltanto come un semplice spettacolo di intrattenimento, ma anche un potente mezzo di propaganda. Le scelte di politica commerciale e culturale nei diversi paesi europei furono il risultato dell'interazione tra differenti variabili: la tipologia di regime politico, la dimensione del mercato cinematografico, la capacità di lobby dei differenti gruppi professionali, il peso attribuito al cinema per la sua valenza culturale piuttosto che per quella più prettamente economica.

Il risultato di tale interazione determinò (e determina) politiche commerciali orientate verso il protezionismo o il libero scambio e politiche culturali di sostegno o di laissez-faire. In Italia, il rapporto tra stato e cinema era iniziato negli anni Dieci del Novecento, ma fu con il fascismo che fu definita una politica cinematografica più strutturata e organica: istituendo la programmazione obbligatoria (una pellicola italiana ogni dieci straniere), finanziando la produzione di pellicole, costituendo enti per il controllo e la promozione del cinema (es. Mostra cinematografica di Venezia, Cinecittà) e creando il monopolio statale per l'importazione e distribuzione di pellicole straniere.

Al termine della Seconda guerra mondiale si cercò di ridare forma al cinema nazionale e le leggi approvate furono il risultato di un'attività di lobby tra l'Anica, Associazione nazionale industrie cinematografiche e affini, il nuovo governo e gli Stati Uniti. Se a livello commerciale si passò a una condizione di maggiore apertura, in linea con la politica economica di De Gasperi, la legge Cappa del 1947 e la legge Andreotti del 1949 confermarono una politica culturale di promozione con la programmazione obbligatoria, i contributi statali a fondo perduto, i crediti a condizioni agevolate. Il numero di pellicole nazionali aumentò, così come le coproduzioni europee. Migliorarono i risultati al botteghino dei film italiani e anche al termine del periodo neorealista, che aveva segnato il rinnovamento stilistico, il cinema italiano continuò a occupare posizioni di prestigio a livello internazionale. Le successive riforme legislative per il cinema riflettono le difficoltà che un governo incontra nel conciliare quell'inevitabile tensione tra interessi economici e culturali che caratterizza le industrie della creatività; una tensione ben sintetizzata da quel "Keynes at home, Smith abroad" di Robert Gilpin.