Notti di ogni colore per città sempre più grigie
Notti bianche, rosa, verdi: si coprono tutti i colori per ridare alla gente il gusto di vivere la città e non concepirla solo come luogo dal quale fuggire appena possibile. Ma i colori delle notti a tema sono solo un disperato tentativo di ridare colore a città grigie, dove ormai non si canta più.
Ha senso oggi parlare di città, dopo che queste sono state snaturate e tendono ormai a divenire un'unica immensa area metropolitana? Un'area che, nel migliore dei casi, è costruita con l'aggettivo ecologico a seguire, un'area efficiente ma sempre meno luogo di incontro tra persone? I luoghi di aggregazione progettati dalle archistar all'interno delle città sono patetici e naturalmente deserti, ciò nonostante si continua a chiamarli come demiurghi per abbellire città nate splendide e defraudate da pletore di geometri al servizio di palazzinari avidi e politici incompetenti. Il federalismo fiscale, il decentramento decisionale e il piano casa non possono che accelerarsi a vicenda verso il saccheggio finale; scelte 'democratiche' dovrebbero farci riflettere sul senso della nostra democrazia, che in 15 anni ha mangiato un territorio grande come l'Abruzzo e il Lazio assieme e che continua a costruire palazzine, case, villette a schiera, seconde case al mare, ai monti, come se il territorio fosse infinito.E una volta cementificato, un territorio è pregiudicato per sempre: anche se la giunta successiva dovesse rendersi conto del disastro, non si potrebbe più tornare indietro. I danni al territorio e alla sua biodiversità sono spesso irrecuperabili. I risultati della prima indagine condotta dall'Osservatorio nazionale sul consumo di suolo sono inquietanti. Considerando solo quattro regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Piemonte, le uniche regioni in cui è stato possibile raccogliere i dati in maniera sistematica) ogni giorno 200 mila metri quadrati di suolo vengono mangiati dal cemento. Sono 20 ettari di territorio che l'urbanizzazione ricopre in un processo folle che cancella quotidianamente aree grandi come 12 piazze del Duomo di Milano. Nessuno finanzierebbe oggi una ricerca sui reali effetti d'infrastrutture che hanno accelerato la velocità di connessione tra una città e l'altra, tra un villaggio remoto e la città di riferimento; nessun organo di governo la finanzierebbe perché crollerebbe tutta l'impalcatura di paradossi su cui si basa la nostra società e la nostra economia; focalizzarsi sulla velocità delle relazioni e dei collegamenti non ha fatto altro che spostare scuole, università, ospedali e luoghi di lavoro lontano dal luogo di residenza, non più raggiungibili a piedi neppure quando la distanza in linea d'aria è minima.Ma le nuove città nascono per le automobili, le nuove infrastrutture tagliano comunità e territori, come se fossero molti muri di Berlino; quello almeno era esplicitamente pensato per dividere, queste opere incredibilmente vengono spacciate come opere per unire. Bisogna rompere il circolo vizioso che spinge le persone a muoversi sempre più lontano, sempre più velocemente, sempre più spesso e a un prezzo sempre più basso; dobbiamo passare a un modello il cui slogan sia meno veloce, meno lontano, meno spesso e con un prezzo più alto, un modello cioè più sostenibile e che sia in grado di vedere gli effetti sociali e ambientali delle infrastrutture, la loro incapacità di soddisfare i bisogni di mobilità in quanto ne creano automaticamente di nuovi, che a loro volta richiedono nuove infrastrutture e così via fino al consumo totale del territorio.
Si festeggia in genere la strada che collega il villaggio remoto, ma questa non fa che spingere gli abitanti ad abbandonarlo, per ingrossare i sobborghi di città sempre più grandi e disumane, dove sono necessarie nuove linee metropolitane, tangenziali, ospedali, scuole, e dove non c è più tempo per cantare.