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Non ha lieto fine la favola del design

, di Gabriella Lojacono - professore associato presso il Dipartimento di management e tecnologia
Nell'arredamento, tra il 1990 e il 2005 l'Italia è scesa dal 19% all'11% delle esportazioni mondiali. Come reagire all'offensiva dei paesi low cost?

Fino a qualche anno fa, il sistema arredamento era citato come esempio di Made in Italy e come uno dei settori italiani di traino. Sembrava non ci fosse più niente da dire, a parte la favola che ormai tutti conosciamo: il connubio tra creatività dei designer e genio imprenditoriale, i miracoli del distretto, l'aumento dell'export, il numero crescente di visitatori al Salone del Mobile.

Destino ha voluto che gli imprenditori si trovassero davanti a problemi e sfide inusuali, prima fra tutti la perdita di competitività di fronte alla concorrenza dei paesi low cost. Dall'analisi dei flussi commerciali emerge uno scenario allarmante: l'arredamento italiano ha subito una battuta d'arresto nei mercati storici. I produttori dei paesi emergenti sono penetrati aggressivamente nei nostri principali mercati di sbocco, con prodotti di qualità non sempre accettabile, ma a prezzi competitivi.

Dal 1990 al 2005 la quota di mercato delle esportazioni italiane sul totale mondo è diminuita dal 19% all'11% e nel 2004 la Cina ha sostituito l'Italia come principale esportatore al mondo. In particolare, è la crescita media annua a destare preoccupazione: il 18% per la Cina e il 7% per l'Italia nel periodo 1980-2005; rispettivamente, il 36% (Cina) ed il 4% (Italia) nel 2003-2005.

Tuttavia, ciò non significa che l'Italia abbia perso la sua competitività: è possibile che, a fronte di una riduzione dei volumi esportati, si stia spostando verso la produzione di alta gamma, strategia che può originare un vantaggio nel lungo termine. Tali ipotesi sono collegate all'osservazione di dinamiche competitive differenziate per raggruppamenti di imprese. Dunque, se da un lato l'Italia vanta una percezione positiva dell'offerta sui mercati mondiali, dall'altro il livello dei costi spinge le imprese a perseguire un vantaggio di differenziazione che ne limita l'utenza.

L'andamento altalenante dell'attività internazionale delle imprese italiane è stato condizionato non solo da ragioni esterne, riconducibili all'emergere di nuovi attori (la diffusione di grandi distributori come Ikea) e paesi, ma anche dalle limitate dimensioni aziendali e dalle caratteristiche dell'imprenditore e del management. Più precisamente, i problemi di crescita internazionale delle imprese italiane dell'arredamento sono riconducibili alla mancanza di pianificazione per la scelta dei mercati e le modalità di ingresso, alla difficoltà di andare oltre l'export (spesso adottato in forma indiretta), alla tendenza a replicare all'estero l'approccio al mercato domestico, in termini di offerta e di modalità di vendita. Inoltre, all'esclusione di forme di delocalizzazione da parte delle aziende di alta gamma, alla concentrazione dell'export in uno o pochi paesi seguiti da una miriade di mercati che assorbono una percentuale minima delle vendite.

La dimensione è al tempo stesso causa ed effetto dei processi di internazionalizzazione poiché, se da un lato essa aumenta grazie all'apertura internazionale, dall'altro tali processi stentano a decollare e a essere efficaci al di sotto di una certa soglia dimensionale. La dimensione sembra quindi un fattore critico, una condizione per crescere sul piano internazionale, indipendentemente dal segmento in cui si opera.

Un insieme di interventi, prevalentemente di tipo interno, sono in grado di influire sulla capacità competitiva delle imprese sui mercati esteri. Iniziative che si possono sintetizzare in sei aree: il modello di business internazionale; l'organizzazione dell'attività internazionale (persone e relazioni commerciali); la strategia di prodotto; i tempi di consegna, la logistica e il servizio; le strategie di marca; la formazione.

Le imprese dell'arredamento investono tipicamente nella comunicazione e in particolare nella partecipazione alle fiere. Così si rischia però di trascurare investimenti come la formazione delle persone. Sembra paradossale, se si pensa alla sofisticazione delle competenze che necessitano le attività all'estero, ma questa attività è attualmente trascurata.