In nome del legislatore o di una corte
Se è fuor di dubbio che, a partire dall'ultima decade del '900, i diritti civili rappresentano la direttrice primaria dello sviluppo degli ordinamenti giuridici occidentali, la loro declinazione nell'ambito delle scelte inerenti all'orientamento sessuale e del loro riconoscimento giuridico sembra essere l'elemento di maggiore novità del periodo più recente.
Edmondo Mostacci |
Sul punto, le indicazioni che emergono dal diritto comparato sembrano ormai univoche: l'accessibilità dell'istituto matrimoniale per le coppie same-sex è riconosciuta in una pluralità di paesi, a seguito di specifiche scelte del decisore politico o dell'intervento di Corti supreme o costituzionali. Così, se nel 2001 Belgio e Olanda svolgono un ruolo pionieristico, accompagnati poi dalla Spagna, nel quadriennio a cavallo del 2010 sei paesi dell'Europa occidentale ne seguono le orme, fino alla recente approvazione del Marriage (Same Sex Couples) Act 2013 da parte del Parlamento di Westminster.
Fuori dall'Europa, l'iniziativa è assunta direttamente dalle Corti. Emblematica l'esperienza canadese, ove il divieto di discriminazione sulla base del sesso è dapprima interpretato dalla Corte suprema nel senso di ricomprendervi l'orientamento sessuale (Egan v. Canada) e poi utilizzato dalle corti provinciali per dichiarare illegittime la normative che sanciscono il carattere necessariamente eterosessuale del matrimonio (Halpern v. Canada e Eagle v. Canada). Simile l'esperienza sudafricana, in cui la Corte costituzionale ricostruisce in termini di tutela della dignità umana il diritto a contrarre matrimonio con la persona of one's choice (sentenza Fourie).
In questo filone si inserisce, anche se non senza contraddizioni, la recente esperienza statunitense. Qui, il filo della storia si mostra tortuoso e prende avvio da una sentenza resa dalla Supreme Court delle Hawaii nel 1993 – Baehr v. Miike – in cui si giudica contraria alla clausola dell'equal protection la norma che dichiara strettamente eterosessuale il matrimonio. Tale sentenza, oltre a provocare la reazione del Legislativo hawaiano, determina una reazione del Congresso il quale approva una normativa – il Defense of marriage act (Doma) – volta a privare di effetti per il diritto federale i matrimoni same-sex celebrati in base a eventuali normative dei singoli stati.
Nello scorso luglio, con la sentenza United States v. Windsor, la Corte suprema degli Stati Uniti porta il diritto federale su una posizione di benigna neutralità nei confronti del same-sex marriage, dichiarando la contrarietà a Costituzione del Doma. Il reasoning seguito dalla Corte appare incentrato sia sulla clausola del due process del V Emendamento, sia sul carattere federale dell'ordinamento.
Infatti, per un verso la disciplina del matrimonio e dei suoi effetti è materia di competenza statale; per l'altro, l'obiettivo perseguito dal legislatore federale è quello di vanificare le finalità di eguale protezione delle coppie same-sex perseguite dai legislatori statali, vale a dire di imporre diseguaglianza. L'obiettivo di limitare la scelta politica degli Stati di garantire il riconoscimento del diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso è privo di una sufficiente giustificazione, con ciò ponendosi in contrasto con la nota clausola del due process. Tuttavia, quando si tratta (Hollingsworth v. Perry) di riconoscere al right to marry delle coppie dello stesso sesso la statura di diritto fondamentale, i giudici supremi appaiono più cauti e, trincerandosi dietro un impedimento di natura processuale, evitano di affrontare nel merito la questione.
Gli indirizzi che emergono dal diritto comparato sono concordi in favore del riconoscimento del matrimonio same-sex. Ciò non significa, ovviamente, che il nostro paese debba per ciò stesso aderire al processo descritto. Più semplicemente, si tratta di recepire e assimilare le suggestioni offerte dall'esperienza straniera, per arricchire il dibattito pubblico e affrontare in modo finalmente consapevole un tema ormai ineludibile.