Mozart e il 1791
Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate parla di Oberon, una storia di fate, dove compaiono la Regina della notte e Sarastro, due figure che impersonano il bene e il male. Il libretto del Flauto magico di Mozart attinge a questa leggenda medioevale. Nel 1780 il poeta Christoph Martin Wieland pubblicò un poema che riprendeva il tema dell'antica fiaba. Emanuel Schikaneder e un suo amico, appassionato arrangiatore di testi tedeschi, Karl Ludwig Gieseke, rimasero suggestionati da quella storia che parlava di tante cose e delle magie di un flauto e scrissero per il loro amico Wolfgang, che stava passando un periodo di straordinaria vitalità creativa, un libretto in lingua tedesca dal titolo Die Zauberflöte. Schikaneder era l'impresario del Theater auf der Wieden, un tendone da 800 persone alla periferia di Vienna, frequentato da gente del popolo che aveva voglia di divertirsi a buon mercato. Gieseke era un personaggio strano: nella prima del Flauto faceva la parte del Moro e il suggeritore. Poi, nonostante la sua laurea in giurisprudenza e la sua passione per il teatro, si dedicò allo studio dei minerali. In quella gabbia di matti geniali Mozart si trovava perfettamente a suo agio. La moglie, col suo amichetto, era a Baden Baden a curarsi un male al piede sinistro, un disturbo immaginario che improvvisamente passò dopo la morte del marito. Mozart, quando non era impegnato a perdere al gioco e a godere per pochi fiorini delle grazie delle cantanti, lavorava sui pentagrammi con furia e naturalezza. Il 30 settembre 1791 il Flauto magico andò in scena e fu un grande successo. Sotto quel tendone da circo, il popolino di Vienna si divertiva un mondo, trovava molto buffo l'amore tra Tamino e Pamina e tra Papageno e Papagena e irresistibili i gorgheggi di coloratura della Regina della notte. Quando Papageno, con il ciglio ammiccante e in tono allusivo, diceva alle damigelle: "Ecco, bellezze mie, adesso vi consegno i miei uccelli", tutti ridevano di gusto.
Mozart, avendo le tasche e le mani bucate, aveva sempre bisogno di soldi. Perciò non ebbe dubbi nell'accettare la bella somma di duecento ducati per cambiare radicalmente registro e comporre una "opera seria". Gli presentarono un libretto ricavato da un dramma scritto da Metastasio nel 1734, che trattava il tema difficile e profondo della pietas romana. Mozart scrisse La clemenza di Tito in diciotto giorni, un capolavoro che, secondo alcuni, vola ancora più in alto del Flauto. In quei mesi scrisse anche l'Ave verum Corpus, uno dei più immortali raggiungimenti della musica sacra di tutti i tempi. Nel settembre di quel 1791 Da Ponte, con il solito entusiasmo, gli propose un nuovo libretto, ma Mozart, che stava lavorando al Requiem, era entrato in crisi. Nonostante i suoi successi, nonostante il fiume in piena della sua creatività, era caduto in depressione, la sua mente era percorsa da tristi presentimenti. Rispose a Da Ponte con una delle più celebri lettere del suo epistolario: "Vorrei seguire il vostro consiglio, ma come riuscirvi? Ho il capo frastornato. Sento che l'ora suona; sono in procinto di spirare; ho finito prima di aver goduto del mio talento. La vita era pur bella...ma non si può cangiare il proprio destino". Passava ormai le sue giornate a letto. Scrisse, con gli spartiti sparsi tra le lenzuola, il Dies irae, e poi il Lacrimosa, affannosamente, disperatamente, febbrilmente, sino all'ultimo giorno della sua vita, il 5 dicembre di quello straordinario 1791.