L'Opera, traviata da un mercato in evoluzione
La Modernità culturale in Europa ha imposto un drammatico rinnovamento dello statuto delle arti. I sistemi di committenza cetuali e religiosi che avevano garantito il ruolo e la rappresentazione delle arti si sono stemperati nell'affermazione di una autonomia problematica. La prospettiva filosofica dell'indipendenza creativa del genio e quella economica di una radicale mercificazione mercantile, nonostante le loro evidenti contraddizioni, si sono indissolubilmente congiunte, in un mondo in cui l'artista è divenuto simultaneamente operaio e sacerdote e, grazie a questa trasformazione, un uomo libero di seguire la propria ispirazione.
Questa trasformazione culturale e ideologica, percepibile dalla fine del Settecento in avanti, è stata descritta e studiata a partire da prospettive molto diverse. Raymond Williams, negli anni Cinquanta, l'ha letta come il risultato forzato della trasformazione imposta dalla rivoluzione industriale; Theodor Adorno ne ha interpretato le conseguenze enfatizzando la possibile decadenza della cultura industrializzata; Pierre Bourdieu, negli anni Settanta, l'ha interpretata come risultato necessario di un processo di articolazione sociale che ha condotto alla formazione di campi complessi di produzione simbolica; Lydia Goehr, in un più recente lavoro su Beethoven, l'ha colta come l'emergere di una nuova condizione di esistenza per l'opera d'arte: un lavoro individuale, l'unico capace di incorporare un particolare tipo di sublime genialità umana, per questo portatrice di un diritto di proprietà, strumento per una tutela e una definizione mercantile del suo valore. Muovendosi sullo sfondo di questo dibattito e tenendo conto anche dello scetticismo con cui le ipotesi di radicale trasformazione culturale devono essere trattate, il lavoro di ricerca che ho svolto con l'aiuto di Laura Forti si è concentrato sul problema di ricostruire il processo di trasformazione moderna e industriale dell'Opera italiana tra i primi dell'Ottocento e i primi del Novecento. Nel giro di poco più di quarant'anni, tra il 1830 e il 1870, la musica italiana incontra l'industria editoriale, trasforma la rete di rapporti e di mediazioni che la compongono, muta il suo significato sociale e culturale, acquisisce un senso nuovo per la Nazione, e cerca, trovandoli, nuovi modi per garantire le proprie economie. Al centro di questa avventura artistica, imprenditoriale, filosofica, giuridica sta una città, Milano, e un piccolo gruppo di musicisti, poeti, editori, avvocati. I nomi più noti sono quelli della famiglia Ricordi (Giovanni e Giulio soprattutto), Lucca, Verdi e poi Puccini. È questo gruppo che assorbe, anche per il tramite di testi mazziniani, il senso di una trasformazione più generale e la impone sulla scena italiana. Pochi attori inventano e realizzano il cambiamento, collaborando e scontrandosi, calcolando e sognando, tra affetti e disprezzo, doni e tribunali. Grazie a loro un intero sistema artistico cambia profondamente, fiorisce in una stagione indimenticabile di successi internazionali e poi decade, piegato da una impossibilità, dalla presenza di una linea di tensione che viene da lontano, lo attraversa e lo sgretola. Il lavoro è stato dedicato alla descrizione di questa storia e alla sua collocazione all'interno di una riflessione più generale sul cambiamento istitutivo dell'arte provocato dalla modernità e sui suoi limiti.I "mercanti" che hanno cambiato l'Opera non sono solo gli editori, ma con loro gli autori, Verdi in testa, i librettisti, gli impresari e lo stesso pubblico. Insieme hanno lavorato per un'arte migliore, più libera, pensata, capace di verità, e per questo anche più di successo, più popolare, mercantile, propriamente economica. Insieme hanno coltivato la speranza di un equilibrio perfetto tra arte e mercato. Insieme hanno conosciuto, in questo slancio, una crisi che oggi ribadisce un compito di pensiero e di azione istituzionale.