L'impronta da seguire
Imprese che trasformano il proprio modo di produrre, approvvigionarsi e vendere e consumatori che cambiano le proprie scelte di acquisto: è il senso profondo della green economy. Anche nei mercati e nei settori di frontiera, tuttavia, la transizione verso modelli di produzione e consumo sostenibili è solo all'inizio. A frenarne lo sviluppo non è né la difficoltà culturale degli imprenditori a comprendere la rilevanza del tema ambientale né tantomeno la scarsa maturità e sensibilità dei consumatori. Secondo studi recenti, sono altre le barriere, molto più concrete.
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Fabio Iraldo |
Da un lato, nel bel mezzo dell'era della green economy, le imprese produttrici che inquinano di più sostengono costi fissi e variabili inferiori (scaricando quelli ambientali sulla collettività), poiché non investono in innovazione, potendosi quindi permettere di fissare prezzi più bassi. In assenza di correttivi, questo garantisce loro migliori performance competitive.
Dall'altro lato, per convincere i mercati a premiare i prodotti green, a maggior ragione nei periodi di crisi, occorrono motivazioni credibili e fondate, e spesso le imprese non sono in grado di fornirle. Fra gli indicatori che fotografano questa lacuna ve n'è uno significativo, sviluppato da National Geographic. Il Greendex 2013 dimostra che la prima ragione per cui i 14.000 consumatori intervistati non scelgono prodotti sostenibili, è l'inaffidabilità percepita nelle dichiarazioni dei produttori. Si tratta del ben noto fenomeno del greenwashing, ovvero della propensione del marketing di valorizzare una presunta reputazione ambientale, non supportata da un impegno reale.
Esistono soluzioni che consentano di uscire da questa duplice impasse? La Commissione europea ne ha recentemente sperimentata una, dalle notevoli potenzialità. È stata introdotta la Product environmental footprint (Pef), una metodologia che regolamenta il calcolo, la valutazione, la convalida di parte terza e la comunicazione dell'impronta ambientale dei prodotti e dei servizi. L'approccio seguito dalla Commissione si basa su un principio condiviso e già attuato in molte esperienze aziendali e di policy: l'impatto di un prodotto va misurato lungo tutto il suo ciclo di vita. Il risultato è una rosa di indicatori relativa alle principali categorie di impatto ambientale (emissioni di gas ad effetto serra, efficienza nell'uso delle risorse, impronta idrica etc.) che il produttore, previa convalida di terzi, è legittimato a utilizzare a fini competitivi e, in particolare, di marketing.
La Commissione sta puntando su questo strumento come leva principale per accrescere la quota dei prodotti verdi nel mercato unico, invitando le imprese a calcolare l'impronta che i propri prodotti lasciano e definendo un quadro di incentivi e premialità per chi deciderà di raccogliere la sfida.
Molti sono coloro che stanno dimostrando di credere in questa prospettiva. Innanzitutto le imprese, con un numero crescente di grandi e piccoli player che hanno sviluppato e sottoposto a certificazione la propria impronta ambientale (si pensi a Luxottica per gli occhiali Rayban, Carlsberg per molte proprie birre). In secondo luogo le istituzioni, con il ministero dell'ambiente in prima linea nel supportare più di 200 progetti di sviluppo da parte del mondo imprenditoriale, attraverso il proprio programma di valutazione dell'impronta ambientale, nel cui ambito sono stati erogati 4 milioni di euro di finanziamento a imprese impegnate su questo fronte. Anche le regioni italiane sostengono la diffusione dell'impronta ambientale, soprattutto fra le pmi e i distretti industriali, facendosi promotrici di una rete (Cartesio – Cluster, aree territoriali e sistemi di impresa omogenei), che sta sperimentando sul campo la Pef comunitaria con un progetto europeo del programma Life+.
La principale incognita rimane legata alla reazione dei cittadini. Saranno disposti a dare fiducia a uno strumento autorevole, ma non semplice da comprendere e adottare come guida nelle scelte di consumo?