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L'ibrido spazio della ricerca contemporanea

, di Paola Nicolin - docente di arti visive alla Bocconi, research affiliate del Centro di ricerca Ask (Art, science and knowledge) della Bocconi
Il settore pubblico può vincere la sfida se da curatore si trasforma in ricercatore attento ai processi culturali

A partire dagli anni Novanta, l'Italia ha visto germogliare da un lato nuovi spazi per l'esposizione e collezione del contemporaneo, dall'altro, all'interno di istituzioni anche non deputate alla ricerca sul contemporaneo, una serie di iniziative volte ad accreditare le istituzioni nel dibattito, vero o presunto, sulla contemporaneità. Questo ha favorito una certa familiarità con la ricerca sul nostro tempo, assente persino dai programmi universitari delle facoltà specializzate. La fragilità di un pensiero organico sul contemporaneo, fondato su una letteratura critica solida, ha tuttavia accresciuto il rischio di trasformare un ritardo in un consumo. Le trasformazioni che interessano la complessità del mondo contemporaneo, la moltiplicazione delle geografie e la pluralità di storie dell'arte con cui ogni giorno ci confrontiamo, hanno fatto il resto.

Paola Nicolin

Di fronte a tale complessità, qual è l'interesse pubblico dell'arte? Usciti dalla fase di semplice consumo dell'arte, l'istituzione pubblica può trasformarsi da contenitore a produttore di conoscenza? Può partecipare all'industria dell'arte mantenendo sempre l'attenzione alta sul riassetto delle sue collezioni, sulla ricerca dei formati espositivi, sulla necessità di instaurare nuovi percorsi di senso e cronologie e senza dimenticare il ruolo dei processi storici e delle cornici teoriche che aiutano a prendere delle decisioni che dovrebbero avere un impatto sul futuro? Se dal secondo dopoguerra il ri-uso museale degli edifici storici è un tema architettonico documentato da una ampia letteratura, la questione della relazione tra politiche museali, museologia e pensiero curatoriale è un tema affrontato più sul piano della filologia e della storia degli spazi, delle collezioni e delle mostre e meno sul piano del ripensamento dell'istituzione artistica. Se i testi della museologia classica insegnano a riconoscere nel museo il triangolo compreso tra contesto, collezione, pubblico, è altresì innegabile acquisire accanto a questo modello un'altra ipotesi di istituzione che include tanto i media, quanto gli artisti e i processi produttivi dei lavori che, non a caso, includono l'informazione e il capitale relazionale.

A questo ordine di considerazioni si affiancano le relazioni tra art process e business process (come influisce la domanda del mercato sulla produzione di opera d'arte?), accelerato dall'incremento mai visto prima di situazioni espositive di carattere informativo/teorico (Documenta, Manifesta, Biennale di Venezia), politico-economico (biennali e triennali) o ancora fenomeni come le fiere d'arte contemporanea, che hanno trasformato l'attività delle gallerie, l'agenda dei direttori di musei e fondazioni e degli operatori del settore, facendo del contesto fieristico una piattaforma nevralgica dell'industria dell'informazione. Le istituzioni pubbliche si sono poste il problema del loro rinnovamento partendo dall'ampliamento delle attività, con un'attenzione particolare non solo alle esposizioni ma anche ai public program e alla traduzione dell'interesse pubblico per l'arte in un interesse per l'arte come forma di conoscenza che, a partire dalla centralità dell'opera, riformula il senso del suo collezionare, conservare, divulgare.

L'interesse pubblico per l'arte si rivela dunque un'ipotesi di lavoro interessante perché ha come punto di arrivo la trasformazione del curatore in ricercatore e l'ibridizzazione dell'istituzione, che sposta l'attenzione dall'oggetto ai processi che concorrono alla costruzione della storia.