L'Europa in sofferenza non ritorna agli m&a
È un fatto di buon senso, prima ancora che di serie storiche, considerare periodi di alta volatilità come i meno favorevoli per l'attività di mergers and acquisitions (m&a). I top manager hanno meno fiducia sullo sviluppo futuro del proprio business e sono più cauti nell'investire risorse in crescita esterna per paura di cambiamenti non previsti nei trend di mercato prima della chiusura del deal.
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Stefano Gatti |
Una recente survey di Hogan Lovell condotta a livello mondiale indica che il 90% delle imprese considera l'incertezza come una barriera all'investimento. Circa 2/3 degli intervistati cita anche l'aumentata incertezza politica, specie nei paesi dell'Eurozona. Più incertezza implica una maggiore attenzione alla crescita interna o al restructuring: circa l'88% delle imprese dichiara di voler perseguire strategie di crescita interna perché percepita come meno rischiosa e maggiormente controllabile rispetto a quella esterna.
Nel complesso, quindi, l'm&a non sembra vivere un momento particolarmente felice. Se si considera il periodo tra luglio 2007 e febbraio 2013 e si collega il valore mondiale delle operazioni concluse ai livelli di volatilità del mercato (misurati attraverso il valore dell'indice vix) si nota chiaramente una relazione inversa.
Il quadro globale, tuttavia, nasconde differenze importanti in diverse aree geografiche. Se dividiamo le transazioni in funzione della nazionalità dei compratori, il periodo luglio 2007-febbraio 2013 indica che, dopo un'importante caduta dei volumi nella fascia temporale ultimo trimestre 2008-secondo trimestre 2009 in corrispondenza del fallimento di Lehman Brothers, gli Usa e l'area Asia-Giappone riassorbono lo shock abbastanza rapidamente a differenza dell'Europa. Infatti, a fine 2012, l'Europa rappresenta il 21% del valore mondiale delle operazioni completate. Tale percentuale era del 42% nel terzo trimestre 2007. Per semplice confronto, gli Usa sono passati dal picco più basso del 23% nel primo trimestre 2008 a un consistente 60% a fine 2012.
Le ragioni della diversa performance dei mercati dell'm&a negli Usa e in Asia rispetto all'Europa si riassumono in tre fattori: il costo del funding ai minimi storici a seguito della politica monetaria della Federal Reserve (quantitative easing); la ripartenza dell'attività dei private equity investor a partire dal 2010, aiutata dallo stesso basso costo delle risorse; l'allungamento dell'holding period dei private equity investor. Quest'ultimo, dovuto alla maggiore volatilità, crea occasioni per i compratori di matrice industriale che possono approfittare di bassi multipli di valutazione delle imprese target cedute dagli stessi private equity via trade sale. La survey di Hogan Lovell indica che circa 1/3 degli intervistati in Asia e Usa percepisce crescenti pressioni da parte di activist shareholder per investire le abbondanti risorse liquide accumulate durante il periodo post Lehman.
La situazione in Europa mostra invece livelli di fiducia molto bassi con un ovvio effetto depressivo sul mercato dell' m&a. L'apparente contraddizione è che i fondamentali aziendali sono buoni. Dopo il collasso di Lehman, le migliori imprese europee hanno massicciamente ridotto l'indebitamento ed hanno aumentato lo stock di asset liquidi disponibili.
A fine 2012, si stima che le imprese europee dispongano di circa 1.000 miliardi di euro di liquidi e attivi liquidabili, pari a circa il 9% del total asset. Tuttavia, tale liquidità viene conservata per ragioni precauzionali piuttosto che per un impiego in crescita esterna. Ciò si spiega anche con il rilevante importo di debiti in scadenza e da rinnovare da parte di governi dell'area euro e da parte dello stesso settore corporate nel periodo 2014-2016 e il conseguente possibile rarefarsi della liquidità disponibile oggi.