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L’economia sommersa rallenta l’integrazione degli stranieri

, di Carlo Devillanova - associato presso il Dipartimento di scienze sociali e politiche
Extracomunitari. Le poche evidenze empiriche confermano una certa disparità territoriale nei processi di inserimento

Poco si sa sulle differenze territoriali nei percorsi di integrazione degli immigrati in Italia. Recenti fatti di cronaca suggeriscono che anche in questo campo esistono importanti diversità fra Nord e Sud Italia. L'impressione pare trovare conferma in un recente studio curato da Cesareo e Blangiardo (Indici di integrazione, Franco Angeli, 2009), che evidenzia un indice d'integrazione mediamente inferiore nelle province del meridione d'Italia.

Occorre riconoscere che la definizione di integrazione non è univoca e richiama numerosi diversi ambiti di riferimento, che includono la sfera sociale, culturale, politica ed economica. È però vero che queste dimensioni sono correlate.I fattori che stanno alla base delle specificità territoriali nei processi di integrazione possono essere innumerevoli. Si pensi, ad esempio, alla diversa composizione etnica degli immigrati nelle regioni italiane. Di assoluto rilievo sono anche le disparità nelle politiche sociali, in generale e relative all'integrazione dei rifugiati in particolare, delegate in modo preminente alle amministrazioni pubbliche locali ed espressione di scelte autonome degli enti, ma soprattutto della forte sperequazione delle basi imponibili locali. Altri esempi possono essere addotti. Tuttavia, sono convinto, probabilmente anche per deformazione professionale, che l'integrazione degli immigrati nelle sue varie accezioni sia fortemente facilitata dal loro corretto inserimento nel mercato del lavoro, in professioni che ne esaltino le competenze e facilitino percorsi di mobilità sociale. Vale notare, a questo proposito, che l'incidenza di fenomeni di sovra qualificazione è molto superiore fra gli immigrati rispetto agli italiani. Da questo punto di vista, le più recenti stime Istat confermano che la quota di unità di lavoro irregolari sul totale sfiora, a livello nazionale, il 12% e che il dato aggregato cela differenze territoriali eccezionalmente rilevanti: la quota di lavoro irregolare del Mezzogiorno è più che doppia rispetto a quella del Nord. È evidente che la diffusione di lavoro nero facilita l'inserimento degli immigrati in occupazioni irregolari, poco qualificate e con bassi salari, condizionando molti aspetti del loro processo di integrazione: si pensi alle possibilità di accesso a soluzioni abitative decorose, a servizi sociosanitari minimi, alla vita culturale. Inoltre, l'irregolarità lavorativa rende improbabile l'uscita da situazioni di permanenza irregolare, mancando i requisiti necessari per partecipare agli eventuali provvedimenti di regolarizzazione. In tal senso, essa favorisce il perdurare di presenze irregolari, per le quali le prospettive di integrazione sono sostanzialmente nulle e che, al contrario, rischiano di generare gravi fenomeni di esclusione sociale. Tutto ciò può rivelarsi drammaticamente vero nelle aree del paese in cui l'economia sommersa è più diffusa. Concludendo, credo che il contrasto al lavoro nero possa agevolare i processi di integrazione degli immigrati e, contemporaneamente, contribuire a ridurre le differenze territoriali negli stessi. Da questo punto di vista bisogna riconoscere che l'assenza di canali realistici per l'ingresso regolare in Italia, l'enfasi posta sui controlli alle frontiere, il legame stretto fra contratto di lavoro e requisiti per la permanenza regolare, la recente introduzione del reato di clandestinità sono misure che rendono i lavoratori stranieri particolarmente ricattabili nel mercato del lavoro, con possibili gravi conseguenze su tutti gli altri ambiti di integrazione. Occorre rilanciare con forza la cultura della legalità, rafforzando i controlli sul posto di lavoro o predisponendo un sistema di sanzioni che incentivi la collaborazione virtuosa fra immigrato (e lavoratore italiano irregolare) e autorità.