Contatti

La trappola della “proprietà comune”: meno concorrenza non significa sempre più valore

, di Andrea Costa
La presenza massiccia di investitori istituzionali in imprese concorrenti può influenzare in modo significativo e non sempre desiderabile prezzi e qualità della governance

Negli ultimi anni, la crescente presenza di grandi investitori istituzionali, che detengono quote azionarie in aziende concorrenti tra loro, ha suscitato discussioni a proposito del possibile effetto negativo sulla concorrenza. Questa situazione, definita come “proprietà comune” (common ownership), non rappresenta semplicemente una strategia di diversificazione finanziaria, ma può avere implicazioni dirette sulla competitività e sulla governance delle imprese.

In uno studio (“Common Ownership, Competition, and Corporate Governance“) pubblicato su Management Science, Fausto Panunzi (Dipartimento di Economia/IGIER, Università Bocconi) e Vincenzo Denicolò (Università di Bologna) propongono un modello teorico che analizza in profondità questo fenomeno, offrendo un quadro completo delle motivazioni e delle conseguenze della proprietà comune.

Perché la proprietà comune riduce la concorrenza

Secondo la teoria economica tradizionale, gli investitori istituzionali tenderebbero a comportarsi in modo passivo, limitandosi a diversificare il rischio. Tuttavia, la proprietà comune può anche creare incentivi strategici: quando un investitore detiene quote significative in più aziende concorrenti, può indirettamente influenzare i management a ridurre l’intensità della competizione tra queste aziende. Tale minore competizione conduce a prezzi più alti e, di conseguenza, a maggiori profitti, aumentando così il valore delle aziende coinvolte.

Come evidenziano gli autori, il comportamento dei manager tende a seguire il cosiddetto modello del “controllo proporzionale”: i manager delle aziende tendono infatti a tenere conto degli interessi degli azionisti in proporzione alla quota detenuta da ciascuno di essi. Quando un investitore comune ha quote rilevanti in più imprese attive negli stessi mercati, i manager tendono dunque, anche involontariamente, a limitare la concorrenza per favorire profitti complessivamente più elevati per gli azionisti comuni.

Il compromesso con la governance aziendale

Nonostante l’apparente vantaggio economico, la proprietà comune comporta anche dei costi. In particolare, la governance aziendale può subire un deterioramento significativo. Infatti, quando un investitore istituzionale acquista azioni dai grandi azionisti (“blockholders”), questi ultimi riducono il loro interesse diretto nell'azienda e, di conseguenza, tendono a diminuire gli sforzi di monitoraggio e supervisione dei manager. 

“La proprietà comune riduce l'intensità della concorrenza, il che è vantaggioso per i profitti, ma contemporaneamente riduce gli incentivi degli azionisti di blocco ad adottare iniziative che aumentino il valore dell’impresa, il che è dannoso per i profitti.”

Questa minore supervisione consente ai manager una maggiore libertà di appropriarsi di benefici privati, a discapito del valore complessivo per gli azionisti.

La sfida, quindi, sta nel trovare un equilibrio tra i benefici derivanti da una ridotta competizione (maggiori profitti) e i costi associati a una governance meno efficace.

Determinanti della proprietà comune

Il modello proposto identifica due variabili chiave che determinano il livello di proprietà comune ottimale:

  • Intensità della concorrenza: più il mercato è competitivo, maggiore è il beneficio che gli investitori istituzionali possono ottenere dalla proprietà comune. Pertanto, si prevedono livelli più elevati di proprietà comune in mercati altamente competitivi e frammentati.
  • Qualità della governance aziendale: quando il monitoraggio dei manager è meno necessario (ad esempio grazie a regolamentazioni più rigorose), gli investitori istituzionali sono incentivati a incrementare le loro quote nelle aziende concorrenti. Paradossalmente, questo può portare a un peggioramento delle condizioni per i consumatori, con prezzi più elevati dovuti a una riduzione della concorrenza.

Implicazioni politiche ed empiriche

“I grandi investitori istituzionali dovrebbero attribuire maggiore peso ai settori in cui la concentrazione del mercato è inferiore e l'intensità della concorrenza è maggiore, offrendo così più spazio alla proprietà comune per aumentare il valore delle imprese.”

Panunzi e Denicolò suggeriscono quindi che, nonostante il vantaggio finanziario per gli azionisti, la proprietà comune può generare costi sociali significativi in termini di minore concorrenza. Secondo gli autori, le autorità antitrust dovrebbero tenere conto di questi effetti, valutando con attenzione le operazioni che aumentano significativamente la proprietà comune in settori particolarmente competitivi.

 

Vincenzo Denicolò, Fausto Panunzi, “Common Ownership, Competition, and Corporate Governance”, Management Science Vol. 71, No. 5, DOI https://doi.org/10.1287/mnsc.2023.03467